Il nome, in greco antico, significa invisibile e deriva dal fatto che in molti punti del suo percorso l'Anapo s'ingrotta nel sottosuolo, scomparendo alla vista. Ad esso è associato il mito greco di Anapo.
Il fiume Anapo nasce nel territorio di Buccheri, dalle sorgenti di Guffari e dalla grotta dell'acqua, sul Monte Lauro, la cima più alta dei Monti Iblei (986 m s.l.m.). Lungo il suo percorso attraversa le gole di Pantalica e tutta la suggestiva vallata che dal fiume prende il nome, scende poi per l'irrigua pianura di Siracusa, attraversa il Pantano Grande, ora prosciugato, e si versa nelle acque del Porto Grande di Siracusa a fianco del Ciane – breve fiume che, alimentato da una fonte della stessa acqua dell'Anapo, è conosciuto in tutto il mondo per la pianta di papiro che qui cresce spontaneamente lungo le sponde – e del Mammaiabica[1][2].
Le sue acque sono state sfruttate sin dall'epoca greca per alimentare l'acquedotto di Siracusa, grazie alla costruzione dell'acquedotto Galermi, opera scavata nella roccia viva e lunga circa 22 km. Grazie alla sua costruzione la città poté avere già da allora, garantita una ottima quantità di acqua. Anche oggi le acque dell'Anapo vengono sfruttate dall'acquedotto cittadino e nelle campagne circostanti per irrigazione. Infine nei pressi di Solarino, in territorio di Priolo Gargallo, è attualmente presente una centrale idroelettrica che ne sfrutta (tramite due bacini di contenimento) l'energia cinetica delle acque per produrre energia elettrica.
Oggi la Valle dell'Anapo, già zona di interesse naturalistico, ospita un progetto del Corpo Forestale della Regione Siciliana che mira alla creazione di una riserva biogenetica.
Il fiume Anapo nella letteratura
Nel 1626Pietro Della Valle visita il fiume, anche se erra nel chiamarlo Alfeo, fornendo una delle prime descrizioni:
«Andammo a spasso con barca, ed a tirar d’archibugio nel famoso fiume Alfeo, il quale sbocca nel porto di Siracusa, dirimpetto giusto alle mura della città, passando poco prima sotto ad un ponte d’un solo arco, che pur in faccia alla città si vede […] Il fiume è piccolo assai, ed appena con piccola barca può entrarvisi, ed ha verdi ombrose e deliziose rive d’ogni intorno[3].»
Il fiume Anapo, è stato citato anche nella letteratura, per esempio lo scrittore siciliano Giuseppe Antonio Borgese su di esso scrisse:
«Sulle cui rive l'Arcadia Primigenia risuscita e trova la sua parola, le favole scendono agli uomini, ed essi senza fatica, quasi librandosi van loro incontro»
Alle sponde odo l'acqua colomba, Anapo mio; nella memoria geme al suo cordoglio uno stormire altissimo.
Sale soavemente a riva, dopo il gioco coi numi, un corpo adolescente:
mutevole ha il volto, su una tibia al moto della luce rigonfia un grumo vegetale.
Chino ai profondi lieviti ripartisce ogni fase, ha in sé la morte in nuziale germe.
- Che hai tu fatto delle maree del sangue, Signore? - Ciclo di ritorni vano sulla sua carne, la notte e il flutto delle stelle.
Ride umano sterile sostanza.
In fresco oblio disceso nel buio d'erbe giace: l'amata è un'ombra e origlia nella sua costola.
Mansueti animali, le pupille d'aria, bevono in sogno.
Maupassant visitando Siracusa nel 1885 percorre il fiume Anapo:
«Quindi salgo subito in barca per andare a salutare, dovere di scrittore, i papiri dell'Anapo. Si attraversa il golfo da una riva all'altra e si scorge, sulla sponda piatta e spoglia, la foce di un piccolissimo fiume, quasi un ruscello, in cui si inoltra il battello. La corrente è forte e difficile da risalire. Un po' si rema, un po' ci si serve della gaffa per scivolare sull'acqua che scorre veloce tra due rive coperte di fiori gialli, minuscoli, splendenti, due rive d'oro. Vediamo canne sfiorate dal nostro passaggio che si piegano e si rialzano, poi, con gli steli nell'acqua, degli iris blu, di un blu intenso, sui quali volteggiano innumerevoli libellule dalle ali di vetro, madreperlacee e frementi, grandi come colibrì. Adesso, sulle due scarpate che ci imprigionano, crescono cardi giganteschi e vilucchi smisurati, che legano insieme le piante terrestri alle canne del ruscello. Sotto di noi, in fondo all'acqua, vi è una foresta di grandi erbe ondulate che si muovono, galleggiano, sembrano notare nella corrente che le agita. Poi l'Anapo si separa dall'antico Ciane, suo affluente. Procediamo tra le rive, aiutandoci sempre con una pertica. Il ruscello serpeggia con graziosi panorami di distese fiorite e attraenti. Un'isola appare infine, piena di strani arbusti. Gli steli fragili e triangolari, alti da nove a dodici piedi, portano in cima ciuffi tondi di filamenti verdi, lunghi, sottili e flessibili come capelli. Sembrano teste umane divenute piante, gettate nell'acqua sacra della sorgente da uno degli dei pagani che vivevano lì una volta. È il papiro antico. I contadini, d'altronde, chiamano questa canna: parrucca. Eccone altri più lontano, un intero bosco. Fremono, mormorano, si chinano, mescolano le loro fronti pelose, le urtano, paiono parlare di cose ignote e lontane. Non è forse strano che l'arbusto venerabile, che ci portò il pensiero dei morti, che fu il custode della stirpe umana, abbia, sul suo corpo infimo di arboscello, una grossa criniera folta e fluttuante, simile a quella dei poeti?»