«Vivere, Gallio frater, omnes beate volunt, sed ad pervidendum quid sit quod beatam vitam efficiat caligant[1]»
(IT)
«Tutti, fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma nel veder chiaro cos’è che renda la vita felice sono ottenebrati»
Il De vita beata è il VII libro dei Dialoghi di Lucio Anneo Seneca. È dedicato al fratello maggiore Anneo Novato ed è stato composto intorno al 58. In seguito a un’accusa, mossa da Publio Suillio, inizia una riflessione sul vero senso della felicità. Egli vuole dimostrare, in polemica con la dottrina epicurea, che la felicità non risiede nel piacere, ma nella virtù. Nella seconda parte del dialogo il filosofo risponde alle numerose accuse di coloro che criticavano il suo comportamento, apparentemente discordante da quanto da lui predicato nei suoi scritti.[2]
Nei primi anni del principato di Nerone, essendo il suo consigliere più ascoltato e, di fatto, la seconda figura dell'impero, Seneca si attirò le ostilità e le invidie dei circoli politici e culturali rimasti legati al precedente imperatore Claudio e tagliati fuori dal potere. Fu Publio Suillio Rufo a farsi portavoce di questo malcontento, facendo pubbliche accuse che mettevano in cruda luce le contraddizioni tra il filosofo stoico e l'uomo pubblico e privato Seneca, che spesso agiva in contrasto coi precetti predicati.
Costui non era proprio uno stinco di santo; condannato all'esilio sotto Tiberio per corruzione in un processo, fece le sue massime fortune politiche sotto Claudio, distinguendosi come delatore e accusatore di coloro che incorrevano nell'ostilità dell'imperatore e della terza moglie Messalina.
Seneca se ne sbarazzò facendo imbastire un processo contro di lui per malgoverno della provincia d'Asia, di cui fu governatore come proconsole, e per l'opera di delazione svolta sotto Claudio, al termine del quale fu condannato all'esilio (58).
Ma se l'accusatore non era dei più limpidi, le accuse non potevano semplicemente essere rigettate con sdegno; a queste Seneca rispose, in forma d'un piccolo trattato stoico sulla felicità, nel De vita beata, che si caratterizza per il tono apologetico verso di sé e sprezzante con gli avversari politici, sotto copertura di contrasto filosofico. E proprio in questo torno di tempo, forse prima, forse dopo il processo a Suillio, gli studiosi di Seneca collocano la stesura di questo dialogo (~ 54-59).
In esso, più che in ogni altro dialogo, appare la figura dell'uomo politico ancora potente, e si mostrano le contraddizioni tra l'agire concreto e gl'ideali filosofici, coscientemente accettate nel tentativo di riforma dell'impero assunto da Seneca. Per questo il dialogo fu dedicato al fratello maggiore Novato Gallione, che ben conosceva l'ambiente politico e i suoi compromessi per la brillante carriera che fece, e che, come fratello, poteva essere il giudice più indulgente delle manchevolezze del fratello minore.
Definizioni di vita beata
I primi capitoli del dialogo seguono strettamente il tema proposto, affermando che una cupiditas naturalis (istinto, impulso naturale) spinge tutti a cercare la felicità, ma che i più non la conseguono cercandola nei beni apparenti che non possono darla. Per di più ciascuno è nel contempo esempio e imitatore di mali per gli altri, e per questo i giudizi più diffusi sulla felicità sono anche i più errati: argumentum pessimi turba est (la folla è dimostrazione del peggio):
(LA)
«Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur. Atqui nulla res nos maioribus malis inplicat quam quod ad rumorem componimur, optima rati ea quae magno adsensu recepta sunt, quodque exempla <nobis pro> bonis multa sunt nec ad rationem sed ad similitudinem uiuimus.[3]»
(IT)
«A nulla dunque bisogna badare di più che a non seguire come pecore il gregge di chi precede, dirigendoci non dove si deve ma dove si va. E invero nessuna cosa c’intrica in mali più grandi del fatto che ci regoliamo sulle dicerie, pensando migliori le cose che riscuotono grande consenso, e del fatto che noi gli esempi numerosi li prendiamo per buoni esempi e non secondo ragione ma viviamo per imitazione.»
Altrove da questi beni va ricercato un bene che non sia apparente, ma solido, costante, più bello dov'è meno visibile, un bene da praticare e da sentire, non da ostentare; tale bene è quale è descritto dagli stoici:
(LA)
«Interim, quod inter omnis Stoicos conuenit, rerum naturae adsentior; ab illa non deerrare et ad illius legem exemplumque formari sapientia est
Beata est ergo uita conueniens naturae suae, quae non aliter contingere potest quam si primum sana mens est et in perpetua possessione sanitatis suae, deinde fortis ac uehemens, tunc pulcherrime patiens, apta temporibus, corporis sui pertinentiumque ad id curiosa non anxie, tum aliarum rerum quae uitam instruunt diligens sine admiratione cuiusquam, usura fortunae muneribus, non seruitura. Intellegis, etiam si non adiciam, sequi perpetuam tranquillitatem, libertatem, depulsis iis quae aut irritant nos aut territant; nam uoluptatibus et * * * pro illis quae parua ac fragilia sunt et ~ipsis flagitiis noxia~ ingens gaudium subit, inconcussum et aequale, tum pax et concordia animi et magnitudo cum mansuetudine; omnis enim ex infirmitate feritas est[4]»
(IT)
«Intanto, cosa in cui convengono tutti gli stoici, assento alla natura; non deviare da quella e alla sua legge ed esempio formarsi, è sapienza.
È dunque felice la vita consona alla sua natura, che non si può ottenere altrimenti che se anzitutto la mente non è sana e in perenne possesso della sua sanità, quindi forte e vigorosa, poi mirabile nel sopportare, capace d’adattarsi alle circostanze, del suo corpo e di ciò che lo riguarda attenta ma non ansiosa, inoltre delle altre cose necessarie alla vita diligente senza ammirarne alcuna, pronta a usare i doni della fortuna non a farsene schiava. Capisci, anche se non l’aggiungessi, che ne segue perenne tranquillità e libertà, respinte quelle passioni che ci stimolano o ci spaventano; infatti in luogo dei piaceri e di quelle sensazioni che sono meschine e caduche e anche dannose per l’infamia insita, subentra una grande gioia, imperturbata e costante, e poi pace e concordia dell’animo e grandezza con mitezza; ogni crudeltà viene infatti dalla debolezza»
A questa prima definizione ne seguono altre, in cui viene ulteriormente precisata la felicità e la condizione d'animo del sapiente che l'abbia conseguita, in cui netto si delinea il contrasto tra i munera fortunae (doni della fortuna, falsi beni) e l'unico vero bene della virtù, sul quale Seneca fonda l'aspra polemica con la dottrina d'Epicuro nei capitoli successivi: summum bonum est animus fortuita despiciens, uirtute laetus (sommo bene è l'animo che disdegna i beni fortuiti, contento della virtù.)
Polemica epicurea
Nell'attacco di Seneca a Epicuro in questo dialogo, bisogna distinguere due vene polemiche abilmente mischiate in questa critica: una impersonale e dottrinaria, che contrappone la virtù stoica al piacere epicureo; l'altra personale e piegata a propri fini, che volutamente confonde il piacere d'Epicuro con l'edonismo sfrenato di certi ambienti romani dai quali Seneca intende prendere le distanze, dato che proprio il lusso e la lussuria erano a lui rinfacciati dagli accusatori. In realtà Seneca ben distingueva «fra la sobria ac sicca voluptas (De vita beata, 12, 4) della dottrina genuinamente epicurea e il suo abuso da parte di sfrenati libertini al fine di scusare e coprire le loro dissolutezze»[5]
È ben consapevole Seneca di quest'operazione, se a un certo punto fa sbottare il suo immaginario interlocutore epicureo così: dissimulas quid a me dicatur (fingi di non capire, travisi [scientemente] cosa viene detto da me). E subito al primo attacco Seneca assimila vistosamente i principi d'Epicuro con la crapula degli edonisti:
(LA)
«'Sed animus quoque' inquit 'uoluptates habebit suas.' Habeat sane sedeatque luxuriae et uoluptatium arbiter; inpleat se eis omnibus quae oblectare sensus solent, deinde praeterita respiciat et exoletarum uoluptatium memor exultet prioribus futurisque iam immineat ac spes suas ordinet et, dum corpus in praesenti sagina iacet, cogitationes ad futura praemittat: hoc mihi uidebitur miserior, quoniam mala pro bonis legere dementia est[6]»
(IT)
«“Ma anche l’animo”, dice, “avrà i suoi piaceri”. Li abbia pure e sieda arbitro del lusso e dei piaceri; si riempia di quelle cose che sono solite allettare i sensi, quindi si volga indietro a quelle passate e, memore dei piaceri trascorsi, esulti di quelli goduti e già si sporga a quelli futuri, e metta in fila le sue speranze e, mentre il corpo giace nell’ingrasso presente, anticipi col pensiero quelli futuri: tanto più infelice a me sembrerà, in quanto scegliere i mali a posto dei beni è demenza»
Il ricordo del passato in Epicuro è piacevole perché è la coscienza di piaceri goduti razionalmente, secondo i principi della sua saggezza; un tempo, oltretutto, ormai sottratto ai colpi della fortuna, e dunque il solo pienamente posseduto, che è uno dei capisaldi del De brevitate vitae di Seneca stesso. Mentre il mettere in fila, dare ordine al futuro è la tranquilla attesa di ciò che verrà, perché l'agire presente del saggio, per quanto sta in lui, è razionalmente inteso a evitare ogni sconvolgimento futuro della quiete di cui gode. Invece Seneca, volutamente in malafede, immagina un crapulone che parodisticamente applica questi principi epicurei per volgersi compiaciuto ai bagordi passati e pregustare quelli futuri, mentre ancora sguazza nei presenti. Più avanti Seneca non si periterà di fare gli esempi di Nomentano e Apicio (forse Marco Gavio Apicio), la cui raffinatissima ghiottoneria era passata in proverbio.
Ma Seneca attacca anche, con più coerenza dottrinaria, il piacere d'Epicuro temperato dalla virtù in nome dell'autosufficienza stoica della stessa:
(LA)
«'Quid tamen' inquit 'prohibet in unum uirtutem uoluptatemque confundi et ita effici summum bonum ut idem et honestum et iucundum sit?' Quia pars honesti non potest esse nisi honestum nec summum bonum habebit sinceritatem suam, si aliquid in se uiderit dissimile meliori[7]»
(IT)
«“Che cosa insomma”, dice, “impedisce di fondere insieme virtù e piacere e rendere il sommo bene tale che sia nel contempo onesto e piacevole?” Perché parte dell’onesto non può essere se non l’onesto né il sommo bene avrà la sua integrità, se vedrà in se stesso qualcosa di dissimile del meglio»
Solo la virtù è al di sopra della fortuna; se si ammette l'unione del piacere, che invece è sottoposto a quella, la virtù perderà la sua prerogativa massima d'essere inattaccabile da quei colpi e cessa d'essere tale:
(LA)
«Qui uero uirtutis uoluptatisque societatem facit et ne ex aequo quidem, fragilitate alterius boni quidquid in altero uigoris est hebetat libertatemque illam, ita demum si nihil se pretiosius nouit inuictam, sub iugum mittit. Nam, quae maxima seruitus est, incipit illi opus esse fortuna; sequitur uita anxia, suspiciosa, trepida, casum pauens, temporum suspensa momentis[8]»
(IT)
«Ma chi stabilisce l’alleanza di virtù e piacere e neppure alla pari, con la fragilità d’un bene indebolisce quanto v’è di vigore nell’altro bene e quella libertà, solo allora invincibile se niente più prezioso di sé conosce, la fa passare sotto il giogo. Infatti, cosa che è la peggior servitù, inizia ad aver bisogno della fortuna; segue una vita ansiosa, sospettosa, trepidante, paurosa del caso, sospesa ai mutamenti dei tempi»
In aggiunta a queste critiche, Seneca fa anche la contrapposizione tra una vita nascosta e nell'ozio degli epicurei (anche se malignamente qui l'ozio è rappresentato come vita di stravizi invece che contemplativa) e l'impegno attivo della virtus, dedita ai compiti e doveri sociali e statali, che è tratto tipico d'accusa delle classi dirigenti romane (basti menzionare i tanti passi di Cicerone a questo riguardo) contro il disimpegno politico professato dagli epicurei; Seneca aveva allora ancora piena fiducia d'intervenire in favore dello stato:
(LA)
«Virtutem in templo convenies, in foro in curia, pro muris stantem, puluerulentam coloratam, callosas habentem manus: uoluptatem latitantem saepius ac tenebras captantem circa balinea ac sudatoria ac loca aedilem metuentia, mollem eneruem, mero atque unguento madentem, pallidam aut fucatam et medicamentis pollinctam[9]»
(IT)
«Incontrerai la virtù nel tempio, nel Foro, nella Curia, a difesa delle mura, ricoperta di polvere, accaldata, con le mani callose; scoprirai invece il piacere a nascondersi e a sgattaiolare in angoli bui, attorno ai bagni, alle terme e nei posti che temono le guardie, rammollito, snervato, fradicio di vino e profumo, pallido, imbellettato e imbalsamato come un cadavere»
Certo Seneca si rende ben conto d'essere andato oltre la giusta polemica con Epicuro, spinto da interessi estranei alla filosofia, e in parte ritratta facendo la distinzione tra i precetti d'Epicuro e l'uso distorto che ne facevano certi seguaci. Ma, aggiunge, se Epicuro era malcompreso è perché l'etichetta “piacere” attaccata sopra la sua dottrina, frugale e astemia, attirava con l'allettamento del nome quei seguaci che poi davano a quel piacere il contenuto dei loro vizi:
(LA)
«Hoc tale est quale uir fortis stolam indutus: constat tibi pudicitia, uirilitas salua est, nulli corpus tuum turpi patientiae uacat, sed in manu tympanum est. Titulus itaque honestus eligatur et inscriptio ipsa excitans animum: quae stat, inuenerunt uitia[10]»
(IT)
«È come se fossi un uomo forte vestito da donna: la tua pudicizia è integra, la virilità è salva, nessuna parte del tuo corpo è disposta a subire indecenze, ma in mano c’è il timpano. Perciò si scelga un’etichetta onesta, che di per sé sollevi l’animo: quella che spicca è invenzione dei vizi»
Una maniera abile e un po' capziosa, come dimostra l'immagine paradossale del virile Epicuro vestito da donna, di voler salvare capra e cavoli, la verità filosofica e il fine personale della polemica condotta contro la sua dottrina.
L'autodifesa
Nella seconda parte del dialogo, l'autodifesa di Seneca si fa scoperta, riportando egli stesso le accuse che gli erano mosse, di cui le principali erano le ricchezze ammassate durante l'amicizia con Nerone e l'indulgenza al lusso contrastante con i precetti predicati:
(LA)
«'Quare ergo tu fortius loqueris quam uiuis? Quare et superiori uerba summittis et pecuniam necessarium tibi instrumentum existimas et damno moueris et lacrimas audita coniugis aut amici morte demittis et respicis famam et malignis sermonibus tangeris? 2. Quare cultius rus tibi est quam naturalis usus desiderat? Cur non ad praescriptum tuum cenas? Cur tibi nitidior supellex est? Cur apud te uinum aetate tua uetustius bibitur? Cur aurum disponitur? Cur arbores nihil praeter umbram daturae conseruntur? Quare uxor tua locupletis domus censum auribus gerit? Quare paedagogium pretiosa ueste succingitur? Quare ars est apud te ministrare nec temere et ut libet conlocatur argentum sed perite struitur et est aliquis scindendi obsonii magister?' Adice si uis: 'cur trans mare possides? Cur plura quam nosti? <Cur> turpiter aut tam neglegens es ut non noueris pauculos seruos aut tam luxuriosus ut plures habeas quam quorum notitiae memoria sufficiat?'[11]»
(IT)
«“Perché dunque tu parli più fortemente di come vivi? Perché umili le parole davanti a un superiore e pensi che il denaro sia per te strumento necessario e sei turbato da un danno e versi lacrime udita la morte della moglie o d’un amico e hai riguardo alla tua fama e ti risenti dei discorsi maligni? Perché hai una campagna più curata di quanto il bisogno naturale richieda? Perché non ceni secondo le tue regole? Perché hai una suppellettile fin troppo splendida? Perché a casa tua si beve vino più antico della tua età? Perché gli oggetti d’oro sono esposti? Perché si piantano alberi che non daranno altro che ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie un censo maggiore d’una ricca casa? Perché i paggi indossano vesti preziose? Perché è un’arte da te servire a tavola e gli argenti non si mettono come capita o va, ma si dispongono accuratamente, e c’è un esperto a tagliare le vivande?” Aggiungi, se vuoi: “perché possiedi oltremare? Perché più terre di quante conosci? Perché vergognosamente o sei così trascurato da non conoscere un pochino di servi o così sontuoso da averne più di quanti la memoria ne ritenga la conoscenza?»
Seneca, molto abilmente, non respinge l'evidenza dei fatti, ma biasima la maligna interpretazione che l'invidia degli accusatori dava della differenza tra questi e le sue parole: Non est ergo quod perperam exaudiatis quae honeste fortiter animose a studiosis sapientiae dicuntur (non dovete dunque intendere in modo distorto le parole oneste, forti, animose dette da chi aspira alla sapienza). Seneca non è sapiente né lo diverrà; è ingiusto dunque volerlo valutare secondo la sua norma di vita; ma la volontà di farsi sapiente è sincera, e lo sforzo di migliorarsi costante: hoc mihi satis est, cotidie aliquid ex uitiis meis demere et errores meos obiurgare (questo mi basta, detrarre ogni giorno qualcosa dai miei vizi e biasimare i miei errori).
Costoro, che hanno in odio il nome stesso di virtù, hanno gioco facile a rilevare le contraddizioni dei filosofi tra il dire e il fare, ma se ne servono per proseguire in una vita ben più turpe e per rigettare insegnamenti giusti, anche se fatti da chi non è arrivato appieno a praticarli:
(LA)
«'Non praestant philosophi quae loquuntur.' Multum tamen praestant quod loquuntur, quod honesta mente concipiunt. Vtinam quidem et paria dictis agerent: quid esset illis beatius? Interim non est quod contemnas bona uerba et bonis cogitationibus plena praecordia: studiorum salutarium etiam citra effectum laudanda tractatio est[12]»
(IT)
«“I filosofi non si prestano a fare le cose che dicono”. Ma molto si prestano perché le dicono, perché le concepiscono con oneste intenzioni. Così fosse che facessero azioni anche pari ai detti: cosa sarebbe più felice di loro? Intanto non è che dobbiate disdegnare le buone parole e i cuori pieni di buoni pensieri: l’occuparsi di studi salutari è degno di lode al di là dei risultati»
Neppure è da stupire che chi si proponga un altissimo fine non riesca conseguirlo, ma è giusto ammirare anche chi se lo sia seriamente proposto:
(LA)
«Quid mirum, si non escendunt in altum ardua adgressi? Sed si uir es, suspice, etiam si decidunt, magna conantis. Generosa res est respicientem non ad suas sed ad naturae suae uires conari alta temptare et mente maiora concipere quam quae etiam ingenti animo adornatis effici possunt[13]»
(IT)
«Che meraviglia, se non arrivano in cima chi affrontano dure salite? Ma se sei uomo, ammira, anche se cadono, chi si prova in grandi cose. È nobile cosa, guardando non alle proprie ma alle forze della propria natura, sforzarsi, tentare alte cose, e concepire con la mente cose più grandi di quelle che anche chi è adorno d’un animo grande può realizzare»
Del resto, quale uomo, per quanto integerrimo, è stato risparmiato da critiche malevoli? Non Catone, esempio massimo di virtù romana, non alcuno dei grandi filosofi greci, e neppure quel Socrate, esempio perfetto di sapiente. E proprio alla figura di Socrate affida Seneca la parte più dura della sua requisitoria, non più dalla posizione d'un aspirante alla sapienza ancora in preda ai vizi (ego enim in alto uitiorum omnium sum; io infatti sono immerso in tutti i vizi), ma da quella del compiuto sapiente:
(LA)
«Ecce Socrates ex illo carcere quem intrando purgauit omnique honestiorem curia reddidit proclamat: 'qui iste furor, quae ista inimica dis hominibusque natura est infamare uirtutes et malignis sermonibus sancta uiolare? Si potestis, bonos laudate, si minus, transite; quod si uobis exercere taetram istam licentiam placet, alter in alterum incursitate. Nam cum in caelum insanitis, non dico sacrilegium facitis sed operam perditis. 2. Praebui ego aliquando Aristophani materiam iocorum, tota illa comicorum poetarum manus in me uenenatos sales suos effudit: inlustrata est uirtus mea per ea ipsa per quae petebatur; produci enim illi et temptari expedit, nec ulli magis intellegunt quanta sit quam qui uires eius lacessendo senserunt: duritia silicis nullis magis quam ferientibus nota est. 3. Praebeo me non aliter quam rupes aliqua in uadoso mari destituta, quam fluctus non desinunt, undecumque moti sunt, uerberare, nec ideo aut loco eam mouent aut per tot aetates crebro incursu suo consumunt. Adsilite, facite impetum: ferendo uos uincam. In ea quae firma et inexsuperabilia sunt quidquid incurrit malo suo uim suam exercet: proinde quaerite aliquam mollem cedentemque materiam in qua tela uestra figantur[14]»
(IT)
«Ecco Socrate, da quel carcere che purificò entrandovi e che rese più onesto di qualsiasi curia, proclamare: “che furore è questo, che natura nemica agli dei e agli uomini, d’infamare le virtù e violare cose sante con discorsi maligni? Se potete, lodate i buoni, se no passate oltre; che se poi vi piace esercitare questa sconcia licenza, attaccatevi l’un l’altro. Perché quando infuriate contro il cielo, non dico che fate sacrilegio, ma sprecate la fatica. Offersi io un tempo materia di scherzi ad Aristofane, tutta quella schiera di poeti comici scagliò su di me i suoi frizzi velenosi: la mia virtù ebbe lustro proprio da ciò che la prendeva di mira; le giova infatti essere messa in vista e tentata, né alcuni si rendono conto quanto sia grande più di coloro che la sperimentarono assalendola: la durezza della pietra a nessuno è più nota che a chi la batte. Io mi offro non diversamente da uno scoglio piantato in un mare basso, che i flutti non smettono di colpire da qualunque parte siano mossi, ma che non per questo possono smuovere o per tanti anni con i loro frequenti assalti consumano. Assalite, fate impeto: sopportando vi vincerò. Nelle cose salde e insuperabili qualunque cosa si schianta usa la sua forza a suo danno: perciò cercate una materia molle e cedevole in cui conficcare le vostre frecce»
La requisitoria infine termina con la minaccia velata di stare attenti ai colpi di fortuna, che essi ciecamente trascurano ma che Socrate dall'alto della sua posizione di sapiente (e, sottinteso, Seneca dall'alto della sua di potente) gìa vede arrivare:
(LA)
«Hoc uos non intellegitis et alienum fortunae uestrae uultum geritis, sicut plurimi quibus in circo aut theatro desidentibus iam funesta domus est nec adnuntiatum malum. At ego ex alto prospiciens uideo quae tempestates aut immineant uobis paulo tardius rupturae nimbum suum aut iam uicinae uos ac uestra rapturae propius accesserint. Quid porro? nonne nunc quoque, etiam si parum sentitis, turbo quidam animos uestros rotat et inuoluit fugientes petentesque eadem et nunc in sublime adleuatos nunc in infima adlisos cir * * * ?[15]»
(IT)
«Voi non ve ne rendete conto e mostrate un volto contrario alla vostra sorte, come fanno molti che oziano in circo o in teatro e la cui casa è già in lutto ma non ne hanno notizia. Ma io scrutando dall’alto vedo le tempeste che o vi stanno addosso e tra breve scaricheranno la loro nube, o, già vicine, si sono fatte più vicine per trascinare voi e le vostre cose. Ma poi, non forse fin d’ora, anche se lo percepite vagamente, un turbine ruota e inviluppa i vostri animi, che fuggono e cercano le stesse cose e ora sono scagliati in alto ora scaraventati in basso...?»
Qui l'opera termina bruscamente, essendosene perduta l'ultima parte.
Libertas in regno
(LA)
«In regno nati sumus: deo parere libertas est»
(IT)
«Siamo nati in un regno: obbedire al dio è libertà»
In questo dialogo in Seneca parla spesso il politico; non solo nell'aspra autodifesa dalle accuse d'avversari politici, ma anche più sottotraccia in alcuni concetti filosofici rispecchianti le intenzioni politiche con cui Seneca s'era posto a fianco di Nerone.
Nelle sue definizioni di felicità e del sapiente che la consegue unicamente per virtù, Seneca insiste molto sulla libertà d'una vita felice e sulla condizione libera del sapiente che la vive. Si tratta certo del concetto stoico di libertà, espresso dai paradossi che solo il sapiente è libero e solo il sapiente è re, vale a dire l'autarchia stoica, l'indipendenza del sapiente da ogni condizione esterna anche sociale. Ma proprio a un fine sociale Seneca sembra voler piegare questo concetto.
S'è già visto l'enfasi data alla vita attiva in questo dialogo, per cui la virtù si trova (perché lì s'impegna) nei riti religiosi (inscindibili a Roma dalla politica), nell'attività forense e nelle sedute del senato, oltre che naturalmente nelle funzioni militari. Mette conto adesso citare alcune definizioni di sommo bene e di sapiente tutte spostate verso qualità spiccatamente sociali:
(LA)
«Summum bonum est inuicta uis animi, perita rerum, placida in actu cum humanitate multa et conuersantium cura»
(IT)
«È sommo bene un’invincibile forza d’animo, esperta nelle faccende, pacata nell’agire, con molta umanità e cura del suo prossimo»
(IV, 2)
(LA)
«Intellegitur, etiam si non adiecero, compositum ordinatumque fore talem uirum et in iis quae aget cum comitate magnificum»
(IT)
«Si comprende, anche se non l’aggiungerò, che equilibrato e regolato sarà tale uomo [cioè il sapiente], e in ciò che farà magnifico con affabilità»
(VIII, 3)
Non meraviglia trovare precisi riscontri di queste qualità nel buon regnante delineato da Seneca nel De clementia, il trattato espressamente dedicato al pupillo Nerone, coevo grosso modo al De vita beata, composto nella stessa temperie politica. Seneca accetta l'impero, vi collabora, la fine della res publica per lui è un fatto irrevocabile; la libertà di Cicerone fondata sul rispetto di tutti delle leggi non è più possibile: legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus (infine siamo tutti servi delle leggi proprio per poter essere liberi); il princeps, l'imperatore, di fatto, non è tenuto a rispettarle; alla res publica s'è sostituito il regnum.
Ma c'è un regno più grande al quale, per essere liberi, si deve piena ubbidienza: il mondo e le sue leggi volute dal dio:
(LA)
«Quidquid ex uniuersi constitutione patiendum est, magno suscipiatur animo: ad hoc sacramentum adacti sumus, ferre mortalia nec perturbari iis quae uitare non est nostrae potestatis. In regno nati sumus: deo parere libertas est»
(IT)
«Qualunque cosa si deve sopportare dalla condizione del tutto, si sostenga con grande animo: siamo vincolati a questo giuramento di sopportare i casi dei mortali e non lasciarsi perturbare dalle cose che non abbiamo potere d’evitare. Siamo nati in un regno: ubbidire al dio è libertà»
(XV, 7)
A questa libertà sa giungere solo il sapiente che la sa riconoscere e consapevolmente accettare invece di sottrarvisi vanamente: Quae autem dementia est potius trahi quam sequi (Ma che pazzia è di farsi trascinare invece che seguire). E tale sapiente, come afferma espressamente in questo dialogo, come non sminuisce la sua libertà, così non sminuisce quella degli altri: Nullius per me libertatem deminutam, minime meam (Per parte mia la libertà di nessuno [è stata] intaccata, tanto meno la mia). C'è bisogno dunque d'un re sapiente affinché la sua libertà, che è obbedienza al regno del dio, sia rispettosa della libertà dei suoi sudditi:
(LA)
«Quoniam deorum feci mentionem, optime hoc exemplum principi constituam, ad quod formetur, ut se talem esse civibus, quales sibi deos velit»
(IT)
«Giacché feci menzione degli dei, stabilirò per il meglio questo esempio al principe sul quale si conformi, di modo che voglia essere tale coi cittadini quali vorrebbe che gli dei siano con lui»
(De clementia I, 7, 1)
Altrimenti il principe schiavo delle passioni, come Seneca descrisse minutamente nel De ira riguardo a Caligola, le avrebbe trasformate in licenza contro i sudditi.
Nell'uso mirato del concetto di libertas, Seneca rivendicava di fronte agli avversari politici, che vedevano solo le brutture e i compromessi, l'alto compito politico che il filosofo incoerente s'era assunto come consigliere di Nerone.
Divitiae e socialità
Le grandi ricchezze accumulate in breve tempo era l'accusa principale contro di lui, e su di essa Seneca si sofferma più a lungo. Le ricchezze non sono un bene, non rendendo buono chi le possiede, ma nessuno condanna i filosofi alla povertà, se sono ben guadagnate e non sono sottratte a nessuno. Anzi, tra le cose indifferenti (né buone né cattive) è indubbio che le ricchezze siano tra le cose preferibili (potiora), e potendo scegliere, il sapiente vorrà piuttosto essere ricco che povero. Ma ben diversamente le possiederà da chi l'accusa, che ne è piuttosto posseduto. Costoro si affidano tutti ad esse, e se le perdono si sentono perduti. Il sapiente invece le perderà con la stessa serenità con cui le possedeva. Ma se la povertà permette d'esercitare soltanto le virtù capaci di resistere alla penuria dei mezzi, maggiori occasioni d'esplicare il suo animo offrono le ricchezze al sapiente, che vi potrà esercitare le virtù capaci d'usare i mezzi di cui dispone:
(LA)
«Quid autem dubii est quin haec maior materia sapienti uiro sit animum explicandi suum in diuitiis quam in paupertate, cum in hac unum genus uirtutis sit non inclinari nec deprimi, in diuitiis et temperantia et liberalitas et diligentia et dispositio et magnificentia campum habeat patentem?»
(IT)
«D’altra parte v’è forse dubbio che questa più ampia materia per il sapiente d’esplicare il suo animo vi sia nelle ricchezze piuttosto che nella povertà, dato che in questa l’unico genere di virtù sia di non farsi piegare e abbattere, nelle ricchezze e temperanza e liberalità e diligenza e uso ordinato e magnificenza trovino spazio d’azione?»
(XXII, 1)
Anche in questo punto non è solo il filosofo che parla, ma anche il politico. Le virtù connesse alle ricchezze sono eminentemente sociali e si esercitano nella pronta disponibilità a beneficare chi lo merita, a qualunque strato sociale appartenga. V'è in esso il programma “sociale” di Seneca, che invitava le classi più ricche dell'impero a distribuirle più proficuamente entro la società romana invece di sperperarle: Otiosi divitiis luditis (Oziosi giocate con le ricchezze):
(LA)
«Errat si quis existimat facilem rem esse donare: plurimum ista res habet difficultatis, si modo consilio tribuitur, non casu et impetu spargitur. Hunc promereor, illi reddo; huic succurro, huius misereor; illum instruo dignum quem non deducat paupertas nec occupatum teneat; quibusdam non dabo quamuis desit, quia etiam si dedero erit defuturum; quibusdam offeram, quibusdam etiam inculcabo. Non possum in hac re esse neglegens; numquam magis nomina facio quam cum dono. 2. 'Quid? tu' inquis 'recepturus donas?' Immo non perditurus: eo loco sit donatio unde repeti non debeat, reddi possit. Beneficium conlocetur quemadmodum thesaurus alte obrutus, quem non eruas nisi fuerit necesse. 3. Quid? domus ipsa diuitis uiri quantam habet bene faciendi materiam! Quis enim liberalitatem tantum ad togatos uocat? hominibus prodesse natura me iubet. Serui liberine sint hi, ingenui an libertini, iustae libertatis an inter amicos datae, quid refert? ubicumque homo est, ibi benefici locus est. Potest itaque pecunia etiam intra limen suum diffundi et liberalitatem exercere, quae non quia liberis debetur sed quia a libero animo proficiscitur ita nominata est. Haec apud sapientem nec umquam in turpes indignosque impingitur nec umquam ita defetigata errat ut non, quotiens dignum inuenerit, quasi ex pleno fluat»
(IT)
«Sbaglia se qualcuno stima compito facile donare: è una cosa irta di difficoltà, se solo si distribuisce a ragione invece di spargere a caso e d’impulso. Di questo mi rendo benemerito, a quello restituisco; a quest’altro vengo in aiuto, di questo ho compassione; a quello provvedo perché degno che la povertà non lo distolga e lo tenga occupato; ad alcuni non darò per quanto bisognosi, perché anche se darò ricadranno nel bisogno; ad alcuni offrirò, alcuni anche forzerò a prendere. Non posso essere negligente in questa faccenda; mai faccio crediti maggiori di quando dono. “E che, dirai, tu dai per riavere?” Anzi, per non sprecare: la donazione stia dove non si debba chiedere la restituzione ma si possa restituire. Il beneficio sia posto come un tesoro ben seppellito, che non si debba disseppellire se non sarà necessario. Ma poi, la casa stessa d’un uomo ricco quante possibilità offre di fare del bene! Chi mai chiede che la liberalità vada solo ai togati? La natura mi comanda di giovare agli uomini. Siano servi o liberi, liberi di nascita o liberati, liberati formalmente o alla buona tra gli amici, cosa importa? Ovunque v’è un uomo, v’è posto per un beneficio. Si può dunque elargire denaro anche entro la porta di casa ed esercitarvi la liberalità, che così è chiamata non perché sia dovuta a uomini liberi ma perché viene da un animo libero. Questa in casa d’un sapiente non è mai sprecata con gente turpe e indegna ma neanche scorre così striminzita che ogni volta che troverà qualcuno meritevole non sgorghi come da fonte piena.»
(XXIV, 1)
E proprio in questo periodo Seneca mette mano anche al trattato De beneficiis, che porterà a termine dopo il ritiro della vita politica, a dimostrazione del costante interesse della materia trattata. Ma caduto l'orizzonte di riforma della società imperiale, nell'ultimo Seneca le ricchezze non saranno più viste come maiorem virtuti suae materiam (più ampia materia per la sua [del sapiente] virtù), ma con tutte le occupationes (vano affaccendarsi) che implicano, impedimento a conseguirla:
(LA)
«Deinde spernendae opes: auctoramenta sunt servitutum. Aurum et argentum et quidquid aliud felices domos onerat relinquatur: non potest gratis constare libertas. Hanc si magno aestimas, omnia parvo aestimanda sunt»
(IT)
«Bisogna poi disdegnare le ricchezze: sono compensi delle proprie schiavitù. Oro e argento e tutto il resto che appesantisce le case ricche si lasci andare. La libertà non può essere gratis. Se ne fai grande stima, ogni cosa è da stimare poco»
(Ad Lucilium 104, 34)
La rinuncia così duramente espressa alle ricchezze dal filosofo coerente misura la dura sconfitta subita dal politico.
^Seneca, Opere, Volume 5, UTET, 2013, p. 73; cfr. “De vita beata” in Mario Scaffidi Abbate (cura e traduzione di), “Seneca, L'arte di essere felici”, Roma, Newton Compton editori, 1992, ediz. cit. 2013, pp. 61 e 63: «L'uomo che si abbandona alle gozzoviglie, che rutta continuamente ed è sempre ubriaco, visto che ne gode, s'illude che il piacere conviva con la virtù […]. Quindi non è Epicuro che spinge questi individui alla lussuria, sono loro che, essendo dediti al vizio, celano la loro libidine nel grembo della filosofia, rifugiandosi in quella dottrina in cui si fa l'elogio del piacere. E però non si preoccupano di vedere quanto sia sobrio e sereno il piacere di Epicuro (questa, almeno, è la mia interpretazione), ma corrono diritti alla parola, in cui credono di trovare una giustificazione ed una maschera alle loro sfrenate passioni. […] Sono evidenti a questo punto i rischi che si annidano in un elogio avventato e superficiale del piacere, perché i precetti nobili e profondi contenuti in tale dottrina rimangono nascosti, […]. Io sono fermamente convinto […] che i precetti di Epicuro sono retti e santi, e se li guardiamo attentamente persino severi: il piacere infatti, per lui, si riduce a ben piccola e magra cosa ed è soggetto a quella stessa legge che noi stoici applichiamo alla virtù: esso deve, cioè, obbedire alla natura. […] Io perciò non sostengo, come la maggior parte dei miei colleghi stoici, che la scuola di Epicuro è maestra d'infamie, dico che è diffamata, che ha una cattiva reputazione, e ingiustamente. Chi può sapere, del resto, come stanno esattamente le cose, se non ha ben studiato e approfondito questa dottrina?».