La sua carriera, però, sembrava sempre più indirizzarsi ai teatri d'oltreoceano, tanto che il debutto al Metropolitan Opera di New York non tardò ad arrivare, nel 1920, nei panni di Amonasro, cui avrebbero fatto seguito una trentina di ruoli nell'arco ininterrotto di ben dodici stagioni. Qui partecipò alle prime esecuzioni americane di Giovanni Gallurese di Montemezzi (1925) e de La fiera di Sorocinzi di Musorgskij (1930), oltre a quelle locali de Le roi d'Ys di Édouard Lalo (nel 1922, con la Ponselle e Gigli), di Andrea Chénier e di Loreley (nel 1921 e nel 1922, in entrambi i casi a fianco di Gigli e della Muzio), de I gioielli della Madonna di Wolf-Ferrari (nel 1925, insieme alla Jeritza e a Martinelli). Il suo ritorno in patria, per la stagione 1932/33, si sarebbe segnalato per alcuni successi ancora clamorosi, come quello torinese nel Lohengrin e quello scaligero in Tosca, che l'anno dopo però non si ripeté con Il trovatore, stranamente contestato dal pubblico milanese. Non a caso, dopo alcune recite - tra l'altro al San Carlo di Napoli e al Carlo Felice di Genova -, Danise decise di lasciare le scene, trasferendosi nel 1935 a New York, dove aprì una scuola di canto, alla quale si è rivolta, tra gli altri, Regina Resnik, per perfezionare la sua trasformazione da soprano a mezzosoprano. Tra gli altri suoi studenti si ricordano Bonaldo Giaiotti, Barry Morrell e Giuseppe Valdengo. Va ricordato, inoltre, il suo legame in età avanzata con Bidu Sayão, che sposò in seguito al divorzio del celebre soprano brasiliano dall'impresario teatrale italiano Walter Mocchi, avvenuto nel 1946.
Stile
Giuseppe Danise rappresentò un esempio emblematico del cantante di passaggio tra la vecchia e la nuova scuola, già manifestatosi con la generazione appena precedente degli Ancona, degli Scotti, dei Sammarco, ma che trovava ancora negli anni prossimi alla prima guerra mondiale gli ultimi depositari dell'antico stile ottocentesco. Il trapasso dal belcantismo romantico alla visceralità verista era stato d'altronde meno traumatico in campo baritonale rispetto agli altri registri vocali e, se i Caruso e le Burzio avevano nettamente tracciato una linea di spartiacque tra il cantante del passato e quello moderno per quanto riguardava tenore e soprano, l'esempio altrettanto importante di Titta Ruffo avrebbe manifestato i suoi effetti gradatamente e solo più tardi.
Danise fu un interprete di grande versatilità, che gli permetteva di abbracciare un repertorio vastissimo e quanto mai eterogeneo. Non era forse per l'epoca un requisito raro, visto che la maggior parte dei baritoni era solita destreggiarsi tanto nel repertorio romantico quanto in quello della Giovane Scuola. Danise era però in grado di portare nei ruoli veristi la linea sorvegliata e rigorosa di memoria ottocentesca.
Come interprete Danise fu senza dubbio rilevante, anche se la sensazione che si può cogliere dai suoi dischi - incisi sotto etichetta Brunswick durante il soggiorno americano - resta quella di una potenzialità non completamente espressa. Infatti, al di là dell'esecuzione inappuntabile, viene spesso a mancare l'autentico abbandono, per via di una certa uniformità di suono, che tende a piegarsi al canto sfumato meno di quanto potrebbe.