Il nome del giacimento deriva dallo sfruttamento a fini economici della roccia di gesso affiorante; i piastroni di gesso venivano tagliati con la tecnica del filo elicoidale.[2]
Nel corso dell'attività estrattiva sono venuti alla luce resti di ossa appartenenti a specie estinte.[3]
Tra i resti rinvenuti nella ex cava anche quelli del lupo, che permettono di chiarire ulteriormente la domesticazione e l'evoluzione verso il cane.[4]
Il paleoinghiottitoio
L'inghiottitoio fossile si è originato dallo sciogliersi del gesso messiniano, il quale ha generato una sorta di pozzo ove gli animali (o i loro resti) cadevano, accumulandosi, sedimentandosi e stratificandosi sul fondo.
La datazione del sito[5] varia a seconda delle profondità delle stratificazioni: dagli 11.000 anni fa degli strati superficiali, ai 20.000 anni a.C. degli strati maggiormente profondi.[senza fonte]
Lo studio comparato di diversi scheletri di Canis lupus hanno permesso di fare ulteriormente luce sul passaggio dal lupo al cane e sul processo di domesticazione.[7][8][9]
L'estrazione del gesso, tipica della zona, fu per secoli praticata artigianalmente e a gestione familiare.
Verso la fine del XIX secolo si passò dapprima a un'attività meccanizzata e successivamente allo sfruttamento industriale.
La cava a filo della Croara entrò in funzione nel 1933.[10] Il gesso estratto era utilizzato come materiale da costruzione.[10]
La ex cava a filo IECME, benché bonificata[10] e messa in sicurezza per la fruizione all'interno del Parco, conserva alcuni elementi tipici dell'estrazione del gesso tramite la tecnica del filo ed è interessante dal punto di vista dell'archeologia industriale.
L'estrazione del gesso avveniva tramite un ingegnoso sistema di fioretti e pulegge.
Il fioretto, ossia l'asta metallica con widiam ancora presente, era posto sopra ai martelli perforatori e serviva a suddividere e riquadrare i blocchi di gesso.[11]
La puleggia, ancora in loco, permetteva al filo elicoidale di cambiare posizione durante il taglio della parete.[11]
Come per altre cave oggi incluse nel parco, la battaglia per bloccare l'attività di escavazione iniziò negli anni sessanta, negli stessi anni dei primi rinvenimenti di reperti: i gruppi speleologici per primi, l'Unione bolognese naturalisti e il comune di San Lazzaro riuscirono nell'intento solo alla fine degli anni settanta.[10]
Resti fossili di un cervide (Megaloceros giganteus), proveniente dall'inghiottitoio A del deposito Cave IECME (Coll. Museo della preistoria "Luigi Donini")
Note
^ Gabriele Nenzioni e Fiamma Lenzi (a cura di), Geopaleontologia dei Gessi bolognesi (PDF), in Memorie dell'Istituto Italiano di Speleologia, Serie II XXXII, 2018. URL consultato il 7 novembre 2023 (archiviato il 7 novembre 2023).
^La stessa metodologia del filo di acciaio intrecciato e torto veniva utilizzata nelle cave di marmo delle Alpi Apuane. Cfr. Claudio Busi 2020
G. Pasini, Contributo alla conoscenza del Tardo Wurmiano e del Postwurmiano nei dintorni di Bologna (Italia), in Giornale di geologia, annali del museo geologico di Bologna, II, XXXVI, fasc. 2, 1968, pp. 687–700.
B. Sala, Le faune dell'Ultimo Glaciale dell'Appennino Emiliano, in Materiali e documenti per un museo della preistoria. S. Lazzaro di Savena e il suo territorio, Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1985, pp. 173–177.
Gabriele Nenzioni e Fiamma Lenzi (a cura di), Geopaleontologia dei gessi bolognesi. Nuovi dati sui depositi carsici del Pleistocene Superiore, in Memorie dell'Istituto Italiano di Speleologia, serie II, volume XXXII, Bologna, 2018, ISBN978-88-943271-1-3.