Nacque nella parrocchia di San Giovanni in Bragora (civico 3414 del sestiere di Castello) da Giuseppe e Anna Rota. Ancora bambino, i genitori si separarono e Giacinto andò a vivere col padre assieme al fratello Enrico (nato nel '54). Nella giovinezza, peraltro segnata dalla mancanza della figura materna, non si distinse particolarmente negli studi e i primi contatti con la commedia li ebbe solo tramite il padre che, essendo medico comunale, fu incaricato dal municipio a prestare servizio nei teatri. Frequentò il collegio "Cestari", passando quindi al liceo "Marco Polo" e infine al liceo "Foscarini". Qui compose un'epigrafe dedicata a Daniele Manin, secondo alcuni non priva di pregi, che tuttavia non lo salvò dalla bocciatura. Abbandonati gli studi classici, entrò nell'orchestra del Teatro Malibran (era un buon violoncellista), arrotondando le entrate dando lezioni di pianoforte.
Cominciò ad interessarsi veramente di teatro già a sedici anni: in una prefazione alle sue commedie, ricordava di avere scritto allora una lunga e farraginosa tragedia (Amore e Onestà) ma, più per impratichirsi nell'arte, decise di metterla da parte componendo una commedia, L'Ipocrisia (poi rivista e reintitolata Uno zio ipocrita). Il 22 ottobre 1870 riuscì anche a farla rappresentare, ottenendo però più critiche che apprezzamenti, sebbene qualcuno riconoscesse le sue potenzialità. Spronato da questi tiepidi commenti, decise di recuperare la tragedia e, il 24 marzo 1871, la presentò al pubblico dell'Apollo (l'attuale Teatro Goldoni), ottenendo però un inesorabile fiasco. Demoralizzato ma non ancora arreso (ad un amico scrisse: «La vita è una prova - Corriamo a provar»), decise, inizialmente a controvoglia, di convertirsi alla commedia dialettale ispirata di Carlo Goldoni. Spinto dal capocomico Angelo Moro Lin, alla cui compagnia restò da ora sempre legato, si rivolse al dialetto, e scrisse Le barufe in famegia (ispirata alla goldoniana La famiglia dell'antiquario) che, rappresentata il 12 gennaio 1872, segnò il primo successo per il Gallina.
Appena quarantenne, il commediografo cominciò ad ammalarsi gravemente, prima di tifo, quindi di un ascesso al fegato. Durante il ricovero in ospedale, il sindaco e amico Riccardo Selvatico lo unì civilmente alla convivente, l'attrice Paolina Campsi, ma morì poco dopo, nella casa di Rialto[1].
Le sue opere si caratterizzarono per la descrizione della crisi dell'aristocrazia, delle inquietudini della borghesia, del tradizionalismo dei gondolieri della Venezia post-risorgimentale, impregnata di un fondo ottimistico non esente da note patetiche.[2]