Conflitto in Sudan del 2023
Il conflitto in Sudan del 2023 ha avuto inizio il 15 aprile 2023 in Sudan, e vede contrapposti due gruppi militari, i cui capi erano anche membri del principale organo esecutivo del Paese, il Consiglio sovrano. Le due principali parti in causa sono le Forze armate sudanesi, capeggiate dal generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, e dall'altra le Rapid Support Forces, un gruppo paramilitare controllato da Mohamed Hamdan Dagalo.[6][7] Lo scontro tra queste due fazioni avvenne sia a causa dell'instabilità dovuta alla grave crisi economica del Paese, sia per ragioni politiche: dopo un primo (2019) e un secondo colpo di Stato (2021), un accordo per un periodo di transizione verso un governo civile prevedeva lo scioglimento delle Rapid Support Forces e l'inquadramento dei loro membri nell'esercito regolare. Gli attriti tra Burhan e Dagalo sulle tempistiche e le modalità dello scioglimento furono una delle cause scatenanti del conflitto.[8][9][10] I combattimenti comportarono una gravissima crisi umanitaria: a gennaio 2025 vennero stimate più di 60 000 vittime, 11 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case, e vi furono gravi episodi di carestia.[4] Tra il 22 e il 23 aprile 2024, vennero evacuati per via aerea e navale diversi cittadini provenienti da vari Paesi.[11][12] La gravità del conflitto spinse Edem Wosornu, direttrice delle operazioni dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, a dichiarare che quello del Sudan "è uno dei peggiori disastri umanitari a memoria d'uomo".[13] ContestoIl Sudan proveniva da un periodo di forte instabilità politica e economica: nell'aprile 2019 il presidente Omar Al Bashir, al potere da più di trent'anni, venne destituito da un colpo di Stato organizzato dai militari e a seguito di partecipate proteste popolari. Anche dopo il colpo di Stato le proteste continuarono poiché il capo della giunta militare, il generale Ahmed Awad Ibn Auf, era considerato troppo vicino a Omar Al Bashir. Poco dopo al posto di Auf subentrò l’ex capo di stato maggiore Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, che si mise a capo di un nuovo organo governativo, il Consiglio sovrano composto da civili e militari. Il vicecapo del Consiglio sovrano era il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, che esercitava una grande influenza negli affari del paese grazie al controllo del gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces.[14][15] Il governo di transizione frutto dell'accordo tra i militari e le forze di opposizione a Bashir venne a sua volta rovesciato da un altro colpo di Stato organizzato dal generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan. Anche in questa occasione, venne creato un nuovo Consiglio sovrano presieduto da Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo. Nel dicembre 2022 venne stipulato un nuovo accordo tra i militari e i gruppi pro-democrazia per la transizione verso un regime democratico. Al pari del precedente accordo del 2019, le tempistiche e la modalità della transizione erano descritte in maniera molto vaga. Fra le altre cose, veniva specificato che le Rapid Support Forces avrebbero dovuto fondersi con l'esercito regolare, ma mentre il generale Burhan proponeva un orizzonte temporale di due anni, il capo del gruppo Dagalo sosteneva che sarebbero serviti almeno dieci anni. Tale differenza di vedute si spiegava con il fatto che l'unione delle Rapid Support Forces con l'esercito regolare avrebbe indebolito considerevolmente il potere detenuto da Dagalo. Le tensioni tra i due militari crebbero rapidamente, con accuse e attacchi reciproci.[16][17][18] Le parti in causaForze Armate Sudanesi e Abdel Fattah BurhanAll'inizio del conflitto il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan era il comandante delle Forze armate sudanesi e il capo del Consiglio sovrano, l'organo esecutivo del Paese formato dopo il colpo di stato del 2021. Durante il conflitto del Darfur partecipò ai combattimenti come comandante regionale dell'esercito, e ebbe i primi contatti con Mohamed Hamdan Dagalo. La sua ascesa al potere iniziò dopo il colpo di Stato del 2019 e la caduta di Omar al-Bashir e del suo immediato successore, l'allora ministro della difesa Ibn Auf. Da quel momento Burhan, a capo del primo Consiglio sovrano assieme a Dagalo, consolidò il suo potere e il controllo dell'esercito.[19][20] Secondo il CIA World Factbook, all'inizio del conflitto l'esercito contava fino a 200 000 soldati. L'aviazione e i mezzi corazzati sono principalmente di fabbricazione cinese, russa e sovietica, in aggiunta a una produzione interna tramite compagnie statali di sistemi di armamento sotto licenza di origini cinesi, russe, turche e ucraine. L'esercito dispone anche di una marina e di un'aviazione.[21] Rapid Support Forces e Mohamed Hamdan DagaloLe Rapid Support Forces (RSF), in italiano "Forze di Supporto Rapido", sono un gruppo paramilitare creato nel 2013 e capeggiato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo. Il gruppo ebbe origine dai Janjaweed, miliziani filogovernativi utilizzati negli anni 2000 dal regime di Omar al-Bashir per reprimere la ribellione in Darfur. Tali milizie erano composte in particolare da combattenti di etnia araba appartenenti alla tribù nomade dei Rizeigat, provenienti dal Darfur settentrionale e dalle zone limitrofe del Ciad.[20][22][23] Dagalo faceva parte dei Janjaweed, e nel 2007 minacciò assieme agli uomini della sua brigata un ammutinamento a causa dei ritardi nelle loro paghe. Riuscì così a stipulare un accordo con Omar al-Bashir, ottenendo le paghe per sé e per i suoi uomini e venendo nominato brigadier generale. Nel 2013 il regime di al-Bashir volle dare un maggior ruolo istituzionale a Dagalo e ai Janjaweed, creando così le Rapid Support Forces, di cui Dagalo fu subito nominato comandante. Nel 2017 le RSF presero il controllo delle miniere d'oro del Darfur, permettendo a Dagalo di diventare uno degli uomini più ricchi del Paese. Una parte consistente delle RSF combatté anche in Yemen e in Libia per conto dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, e il gruppo collaborò con la Russia e il gruppo Wagner per le operazioni minerarie nel Darfur.[20][22][22] Le RSF rimasero sempre un gruppo autonomo scollegato dall'esercito e sotto il controllo diretto di Dagalo. Si stima che all'inizio del conflitto contassero tra i 70 000 e i 150 000 combattenti e diverse migliaia di mezzi corazzati. Non disponevano tuttavia di aviazione e avevano prevalentemente esperienza in combattimenti nelle zone rurali del Paese.[22][22] Il conflitto15 aprile 2023: L'inizio delle ostilitàIl 13 aprile 2023 un gruppo di soldati delle Rapid Support Forces (RSF) con più di 200 veicoli al seguito circondò l'aereoporto di Merowe, dove si trovava una base militare dell'Egitto. Testimoni riferirono anche l'entrata di vari mezzi pesanti nella capitale Khartum. L'esercito sudanese denunciò le operazioni delle RSF, sostenendo che fossero avvenute in modo illegale e senza che ne venissero informati, mentre le RSF dichiararono che si trattavano di normali procedure di ricollocamento di uomini e mezzi. Vari membri del governo sudanese e delle diplomazie internazionali di Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea invitarono a una risoluzione pacifica delle controversie e a una futura riunificazione dell'esercito sotto il controllo civile.[24][25] Attorno alle 9 del mattino del 15 aprile 2023 iniziarono gli scontri tra l'esercito regolare e i membri delle Rapid Support Forces. Inizialmente gli scontri si erano concentrati in una base militare a sud di Khartum controllata dalle RSF, ma dopo poco tempo si allargarono al palazzo presidenziale, al quartier generale dell'esercito, alla sede della televisione di Stato sudanese, e all'aeroporto della città. Zone vicine a Khartum furono a loro volta coinvolte nei combattimenti, come ad esempio le città di Omdurman e di Bahrī. A Bahrī in particolare l'esercito utilizzò l'aviazione già dal 16 aprile 2023. Gli scontri si estesero anche in altre città del Paese: furono riportati combattimenti negli Stati settentrionali di Nord, Kordofan Settentrionale e Mar Rosso, e specialmente a Port Sudan, Merowe e al-Ubayyid. Anche la regione del Darfur, dove RSF aveva una forte presenza, fu interessata dai combattimenti, specialmente nei pressi di Geneina (Darfur Occidentale) e a Kabkabiya e Al-Fashir (Darfur Settentrionale).[18][24][26][27][28] Le informazioni sui combattimenti furono frammentate e confuse: dapprima le RSF dichiararono di aver preso il controllo di varie infrastrutture chiave di Khartum. Successivamente l'esercito sostenne che in realtà queste infrastrutture fossero ancora sotto il loro controllo. Entrambi gli schieramenti fecero uso di artiglieria e mezzi corazzati, e l'esercito ricorse anche all'aviazione. Il giorno successivo risultavano fra la popolazione civile almeno 59 morti e 500 feriti. Anche tre impiegati del Programma alimentare mondiale situati nella città di Kabkabiya vennero uccisi. Un aereo della compagnia aerea Saudia situato nell'aeroporto della capitale prese fuoco e un velivolo del Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite venne danneggiato come conseguenza degli intensi combattimenti. La fornitura di elettricità venne interrotta in alcune zone del Paese.[18][24][26][29] Aprile 2023: Le reazioni internazionali e i tentativi di treguaLe reazioni internazionali all'attacco furono generalmente unanimi nel chiedere un cessate il fuoco e una risoluzione pacifica del conflitto. I ministri degli esteri di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti emisero un comunicato congiunto in cui chiedevano una interruzione delle ostilità e il proseguimento delle trattative per un accordo di governo tra civili e militari. Analoghi messaggi vennero inviati da rappresentanti delle Nazioni Unite, dell'Unione africana, dell'Unione europea, dell'Egitto, della Russia e del Ciad, che nel frattempo aveva chiuso il suo confine con il Sudan.[24] Il 18 aprile 2024 venne stipulata una tregua di 24 ore tra le due parti in causa tramite l'intermediazione dell'allora segretario di Stato statunitense Anthony Blinken. La sospensione dei combattimenti aveva lo scopo di permettere ai civili di evacuare le aree interessate dai combattimenti e di fare arrivare acqua e viveri. Tuttavia, il cessate il fuoco non venne rispettato e i combattimenti continuarono anche durante la tregua.[30][31] Nonostante le pressioni internazionali, anche una proposta successiva di una tregua di tre giorni in corrispondenza della festività di Eid al-Fitr non ebbe seguito.[32] A causa dei combattimenti, migliaia di persone, specialmente quelle residenti nella periferia di Khartum, lasciarono il paese. Molti civili residenti nella capitale rimasero però bloccati nelle loro case a causa dell'intensità dei combattimenti.[33] Tra il 22 e il 23 aprile 2024 venne organizzata l'evacuazione per via aerea di buona parte degli stranieri residenti nel paese, fra cui i cittadini di Regno Unito, Stati Uniti, Italia, Francia, Spagna, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Giordania, Cina e Canada. Anche cittadini di altri paesi vennero evacuati tramite questi voli, partiti dal piccolo aereoporto di Wadi Sednia a nord di Khartum a causa dell'inagibilità dell'aeroporto internazionale. Cittadini di vari stati del Golfo Persico, dell'Egitto e del Pakistan lasciarono invece il Paese via nave diretti verso Gedda.[34][35][36] Un ulteriore accordo per una tregua di 72 venne raggiunto il 24 aprile 2023: iniziata alla mezzanotte del 24 aprile e con una durata prevista di 72 ore, aveva lo scopo di ultimare l'evacuazione dei cittadini stranieri dal Paese e permettere ai civili di lasciare le zone maggiormente interessate dai combattimenti. Tale tregua, raggiunta con la mediazione dei Paesi limitrofi, di Stati Uniti, Arabia Saudita e Regno Unito, venne successivamente estesa per altre 72 ore. Anche in questo caso, tuttavia, furono comunque riportati scontri a Khartum e nel Darfur: a Khartum in particolare vennero utilizzate artiglieria e aviazione anche presso uffici governativi e ospedali.[37][38][39] Maggio 2023: Pre-negoziati in Arabia SauditaA inizio maggio i combattimenti tra le due fazioni continuarono nonostante un accordo per una tregua di sette giorni mediato dal Sudan del Sud. Diversi ospedali di Khartum e del Darfur furono pesantemente danneggiati dai combattimenti e le loro attività furono gravemente compromesse.[40][41] Il 6 maggio rappresentanti dell'esercito e delle Rapid Support Forces si incontrarono a Gedda per dei colloqui pre-negoziali organizzati da Arabia Saudita e Stati Uniti. I due paesi emisero una dichiarazione congiunta in cui esortarono «entrambe le parti a prendere in considerazione gli interessi della nazione sudanese e del suo popolo e a impegnarsi attivamente nei colloqui per un cessate il fuoco e la fine del conflitto». Tuttavia, le due parti non raggiunsero un accordo per una cessazione dei combattimenti, ma solo un impegno a creare corridoi umanitari per soccorsi e aiuti e a permettere ai civili di lasciare le zone maggiormente interessate dal conflitto.[42][43][44][45] Il 20 maggio 2023 il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, presidente del Consiglio sovrano, rimosse il vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo da tale organo. Al suo posto venne nominato Malik Agar. Nello stesso giorno venne stipulata un'altra tregua di sette giorni a partire dal 22 maggio, ma anche in questo caso i combattimenti non cessarono, non vennero creati corridori umanitari e solo un numero minimo di aiuti riuscì a arrivare agli ospedali e alla popolazione civile. Il 31 maggio il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan dichiarò il suo ritiro dai colloqui organizzati da Stati Uniti e Arabia Saudita, sostenendo che le RSF non stessero rispettando gli accordi.[46][47][48][49][50] Nel frattempo i combattimenti continuarono, in particolare in Darfur, a Khartum e nelle città limitrofe di Omdurman e di Bahrī. Nella capitale, l'esercitò cercò di tagliare le linee di rifornimenti delle Rapid Support Forces mentre cercava di difendere le proprie basi. D'altra parte Dagalo e molti dei principali comandanti delle RSF erano asserragliati nel quartiere di Jabra, mentre le loro truppe portavano avanti un'offensiva nella parte sud-ovest della città. Le dichiarazioni di entrambe le parti sull'andamento del conflitto furono comunque poco credibili e difficili da verificare.[51] Giugno 2023Il 1° giugno 2023 l'artiglieria dell'esercito presente nel quartiere di al-Shajara bombardò un mercato nel quartiere di Mayo a sud della capitale, lontano da possibili obiettivi militari, causando almeno 27 morti e 106 feriti.[50][52] Il conflitto si inasprì anche nel Darfur e in particolare nella città di Kutum, nel Darfur Settentrionale, dove venne attaccato anche il campo profughi di Kassab, con almeno 40 morti e 12 feriti fra i civili.[53] Le due fazioni in lotta cercarono di assicurarsi il controllo di infrastrutture chiave, come areoporti e basi militari, nelle città della regione, fra cui Al-Fashir e Zalingei. Le forze delle RSF e le milizie arabe loro alleate marciarono verso Geneina, dove l'esercito stava reclutando membri delle tribù di etnia africana a difesa della città. Si verificarono anche numerosi saccheggi: a Nyala, nel Darfur Meridionale, i membri delle forze paramilitari presero d'assalto le banche poiché i loro beni e i loro conti erano stati congelati dal governo.[54] Le notizie di uccisioni di massa nella regione portarono il governatore del Darfur Occidentale, Khamis Abakar, in una intervista a una televisione saudita, a accusare le Rapid Support Forces di genocidio e di violenze contro le popolazioni di etnia Massalit e non araba. Poche ore dopo, Abakar venne assassinato: rappresentanti dell'ONU nel paese accusarono dell'omicidio le Rapid Support Forces e le milizie arabe operanti nella zona. Alcuni filmati mostrarono un gruppo di uomini armati, alcuni con le uniformi delle RSF, che sequestravano il governatore.[55][56] Anche l'inviato dell'ONU in Sudan, Volker Perthes, accusò le Rapid Support Forces e le milizie arabe loro alleate di uccisioni indiscriminate contro la popolazione civile.[57] Conseguenze del conflittoGli scontri tra l'esercito sudanese e le Rapid Support Forces ebbero pesanti conseguenze per la popolazione civile, sia perché direttamente coinvolte nei combattimenti o costrette a lasciare le proprie abitazioni, sia per i gravi episodi di carestia verificatisi nel Paese.[4] DecessiNon vi sono stime esatte sul numero di decessi dovuti al conflitto, ma varie fonti concordano che, dall'inizio degli scontri e la fine del 2024, furono uccise dalle 60 000 alle 150 000 persone.[4][5] Un gruppo di studiosi di salute pubblica e di medicina di università belghe e statunitensi stimò a ottobre 2024 che i decessi totali oscillassero dalle 62 000 alle 130 000 persone.[58] Una stima simile proviene da un articolo di ricercatori affiliati presso la London School of Hygiene & Tropical Medicine e altre istituzioni, non ancora sottoposto a revisione paritaria, che concluse che tra aprile 2023 e giugno 2024 nel solo Stato di Khartum sarebbero morte circa 61 000 persone, di cui 24 000 circa come conseguenza diretta dei combattimenti.[59][60] Le difficoltà a calcolare con precisione le vittime del conflitto sono dovute al fatto che un grande numero di decessi non è riportato e che il calcolo delle vittime indirette, causate da indisponibilità di cibo, medicine e strutture mediche, è basato su delle stime.[58][59] SfollatiA causa dei combattimenti, molti civili dovettero lasciare le proprie abitazioni per rifugiarsi in altre località del Paese o in nazioni confinanti. Un rapporto dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni registrò dal 15 aprile 2023 fino al 14 gennaio 2025 circa 8,83 milioni di nuovi sfollati interni e circa 3,47 milioni di nuovi profughi verso i Paesi confinanti, soprattutto Egitto, Sudan del Sud e Ciad. La maggioranza degli sfollati proveniva dagli Stati di Khartum, del Darfur Meridionale e del Darfur Settentrionale, e circa la metà erano persone sotto i 18 anni.[61] CarestiaA causa del conflitto, l'attività agricola del Paese venne gravemente compromessa: la produzione agricola nel 2023 fu inferiore alla media del Paese, a causa delle scarse piogge, delle difficoltà a accedere ai campi e al minore utilizzo di prodotti e macchinari. I contadini ebbero difficoltà a reperire fertilizzanti, diserbanti, e macchine agricole, in parte per una mancata disponibilità e in parte a causa di un peggioramento della situazione economica delle famiglie. La minore produzione agricola, la chiusura dei mercati, la debolezza della sterlina sudanese, la maggiore dipendenza da derrate alimentari importate dall'esterno, la distruzione di campi e infrastrutture e i saccheggi furono tutti fattori che contribuirono a aumentare drasticamente il costo degli alimenti di base: a maggio 2024 il prezzo della farina di grano aumentò del 247% rispetto alla media quinquennale, quello del sorgo del 383%, e quello delle capre del 399%. In aggiunta, entrambe le parti in lotta impedirono il passaggio di aiuti alimentari da parte di Medici senza frontiere e delle Nazioni Unite.[62][63] Come conseguenza, il livello di malnutrizione aumentò sensibilmente. Secondo l'Integrated Food Security Phase Classification (IPC), a giugno 2024 il Sudan ebbe a che fare con il peggior livello di insicurezza alimentare mai registrato nel Paese, con 25,6 milioni di persone in situazioni critiche di carenza di cibo. Nonostante l'arrivo della stagione del raccolto, si stima che anche nei mesi successivi situazioni di grave insicurezza alimentare abbiano coinvolto almeno 21 milioni di persone. Il rischio di carestia è presente in particolare nel Darfur, nel Kordofan, nello Stato di Gezira, e in alcune zone nello Stato di Khartum.[64][62] Note
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