Giovanni da San GiovanniGiovanni Mannozzi, detto Giovanni da San Giovanni (San Giovanni Valdarno, 20 marzo 1592 – Firenze, 9 dicembre 1636), è stato un pittore italiano. BiografiaOrigini e apprendistatoDi origini faellesi (cognome Mannozzi), Giovanni da San Giovanni era figlio del notaio Giovan Battista di Agnolo, che provò a indirizzarlo verso la carriera notarile, prima, ed ecclesiastica poi, come lo zio Francesco (sacerdote e poi pievano a San Giovanni). Manifestatasi la sua predisposizione per la pittura, Giovanni finì per abbandonare gli studi e trasferirsi sedicenne a Firenze dove, per interessamento del canonico Filippo Del Migliore, amico dello zio paterno Francesco, entrò nella bottega di Matteo Rosselli nel 1608 circa. Pressoché nello stesso periodo frequentò anche Giulio Parigi, architetto di corte, scenografo e incisore, con cui perfezionò l'uso della prospettiva. In particolare fu accanto al Parigi durante l'allestimento degli apparati effimeri per le solenni esequie della regina di Spagna (nonché sorella della granduchessa in carica) Margherita d'Austria nel 1612[1]. GioventùIn quello stesso anno si immatricolò all'Accademia delle arti del disegno, concludendo quindi il suo apprendistato. Nel 1615 ricevette la commissione per la sua prima opera pervenutaci, due tele con coppie di Putti che intrecciano ghirlande per il soffitto della galleria di Casa Buonarroti, che furono pagate fino al 1619 da Michelangelo Buonarroti il Giovane[1]. Sempre nel 1615 dipinse i cori angelici nella cupola della chiesa di Ognissanti e, a partire dall'anno seguente, fu coinvolto anche nella decorazione del chiostro principale con una serie di cinque lunette di Storie della vita di san Francesco, che terminò nel 1619, come ricorda la data apposta accanto all'unica sua firma in questo complesso, il San Francesco in adorazione della Vergine. A partire da questi primi lavori si manifesta la sua predilezione per la tecnica dell'affresco[1]. Sempre in questi anni giovanili affrescò alcuni tabernacoli in città e nel contado, tra i quali restano oggi ben conservati quello di via Faenza (originariamente però in via Cennini) e, soprattutto, il grande tabernacolo delle Stinche (entrambi del 1616), che posto su un canto del carcere ritrae Un gentiluomo che distribuisce elemosine ai carcerati[1]. Si tratta di opere dal tratto fresco e agile, che attrassero presto l'interesse della corte medicea. Nel 1616 infatti il granduca Cosimo II de' Medici gli commissionò un'Allegoria di Firenze'' su una facciata di piazza della Calza, situata proprio in corrispondenza dell'apertura di Porta Romana. Dell'opera non rimane che qualche scarsa traccia nei depositi della Soprintendenza, staccata negli anni cinquanta, quando fu sostituita da un rifacimento moderno; è però nota a grandi linee grazie a un disegno preparatorio autografo conservato nel gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e un'incisione di Giuseppe Zocchi[1]. Contento del risultato, l'anno seguente il granduca lo nominò "familiare di corte", assieme a Jacques Callot e Filippo Napoletano[1]. Il pittore, dalla personalità piena di curiosità e di arguzia, conduceva una vita a Firenze che il biografo Filippo Baldinucci definì "stravagante": ad un'ossessiva applicazione allo studio del disegno e a letture di poesia e storia si accompagna un apparire trasandato[1]. L'esempio di CaravaggioTra il 1619 e il 1620, in due fasi separate, Donato dell'Antella gli affidò la regia, assieme a Giulio Parigi per la parte architettonica, della decorazione della facciata del palazzo dell'Antella in piazza Santa Croce. Qui riuscì nel giro di appena due anni a realizzare un vasto ciclo, solo in parte conservato, sovrintendendo un gruppo di colleghi anche più anziani di lui, quali il Passignano e Matteo Rosselli. Il Baldinucci lasciò una dettagliata descrizione degli affreschi e dei loro autori: a Giovanni da San Giovanni spettano alcune Virtù e il Cupido dormiente che citava fedelmente il dipinto del Caravaggio, pezzo forte delle collezioni del committente. Una migliore lettura del ciclo è possibile grazie a un acquerello di sua mano, sempre al GDSU[1]. Un'altra opera di questo periodo è probabilmente il Martirio di san Biagio nella chiesa di Sant'Agnese a Montepulciano, ma originariamente nel tempio di San Biagio, su commissione di Giovanni Battista Nardi[1]. Il pittore ambientò la scena sacra in piazza della Signoria a Firenze, tra la loggia dei Lanzi e l'Ercole e Caco di Baccio Bandinelli. Al 1620 risalgono le pale della Circoncisione nella chiesa di San Bartolomeo a Cutigliano e la Decollazione del Battista già nella chiesa di San Lorenzo della sua città natale (oggi nel Museo della basilica di Santa Maria delle Grazie). In queste opere si nota un'accentuazione del chiaroscuro, indotta sicuramente da un primo confronto con le Caravaggio che, quasi certamente, aveva visto unicamente nelle collezioni fiorentine: il Dell'Antella infatti possedeva anche una copia della Decollazione di san Giovanni Battista del Merisi eseguita da Filippo Paladini, da cui Giovanni si ispirò per le figure dei prigionieri nella sua Decollazione[1]. Nel 1621 gli furono pagate due affreschi per la scalinata della basilica di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno (Annunciazione e Sposalizio della Vergine, quest'ultima che dovette ripetere due volte su richiesta dei committenti insoddisfatti del troppo realismo del volto della Vergine; la prima versione, riscoperta dopo lo strappo, seppure in pessime condizioni di conservazione è esposta nel vicino museo della basilica) e le Storie di sant'Andrea nella cappella Calderini (oggi detta Giugni) in Santa Croce. In quello stesso anno, con l'occasione dell'entrata di Maria Maddalena de' Medici nel convento della Crocetta, gli fu commissionata una cappellina privata nel giardino, dove dipinse tra l'altro la Fuga in Egitto dove insolitamente Maria sta scendendo dall'asino davanti a un'osteria: nel 1788 la cappella interamente trasportata al non lontano spedale di San Matteo, oggi Accademia di Belle Arti. Nell'ovale della volta rappresentò alcuni angeli che si affacciano, influenzati probabilmente da opere di Michelangelo Cinganelli che citano i coevi affreschi romani di Cherubino e Durante Alberti. Infine quell'anno completò la cappella nel palazzo Mainoni-Guicciardini a Vico d'Elsa, con Storie della Vergine. Nelle lunette ambientò le scene sacre in ampi paesaggi, che dimostrano la conoscenza di novità romane come le lunette Aldobrandini[1]. Tra il 1620 e il 1622 sono gli affreschi nella cappella Inghirami del Duomo di Volterra e la Sposa novella per don Lorenzo de' Medici oggi alla galleria Palatina, ma originariamente nella villa della Petraia[1]. A RomaA questi anni è infatti riferito un viaggio a Roma, assieme a Francesco Furini e all'allievo Benedetto Piccioli. Nel 1622 l'Arciconfraternita di San Giuseppe dei Catecumeni e dei Neofiti gli fece qui affrescare la cappella di San Carlo Borromeo nella chiesa della Madonna dei Monti, opera che gli fu pagata fino al 1626[1]. Seguirono alcuni lavori per il cardinale fiorentino Giovanni Garzia Mellini, per la chiesa di cui era titolare, i Santi Quattro Coronati (Gloria di santi e storie dei quattro Santi Coronati), e per la sua cappella di famiglia in Santa Maria del Popolo (Storie di san Nicola e Virtù). In queste opere si nota una complessità spaziale chde dimostra l'osservazione delle macchine sceniche di quegli anni e delle chiare tavolozze degli emiliani[1]. Altre opere sono le due lunette firmate nel chiostro di Sant'Andrea delle Fratte (San Francesco di Paola in meditazione e San Francesco di Paola risana una cieca)[1]. Passò poi sotto la protezione del cardinale Guido Bentivoglio e dei suoi familiari, per i quali decorò alcune sale nel palazzo Pallavicini Rospigliosi (già appunto Bentivoglio) a Monte Cavallo[1]. Inoltre dipinse varie commissioni locali, compresi dipinti di genere quali le Burle del pievano Arlotto per il cardinale Francesco Barberini che poi lo donò a Giovan Francesco Grazzini (oggi in collezione Scarsdale, Kedleston Hall, Derbyshire), il Contratto di matrimonio (1627 circa, Galleria nazionale d'arte antica di palazzo Corsini)[1]. Nel 1628 lasciò Roma e si recò a Gualtieri (RE), dove ancora per i Bentivoglio dipinse due grandi scene di Fasti con Ippolito Provenzale nel salone dei Giganti di quello che oggi è il palazzo Comunale[1]; una è perduta e l'altra è notevolmente danneggiata da molteplici manomissioni della parete[2]. Nel contado toscanoIl rientro in Toscana avvenne, per così dire, in punta di piedi, poiché l'artista non si reinserì immediatamente nel giro di committenze del capoluogo, ma lavorò per alcuni anni nei centri della provincia, a partire proprio dal suo borgo natale, San Giovanni. Qui si dedicò inizialmente a un lavoro nei possedimenti della sua famiglia, nel borgo di Montemarciano, dove affresco un Coro angelico nella cantoria della chiesa di Santa Maria delle Grazie (opera assai ridipinta)[1]. Nel 1629 fu attivo alla badia a Settimo, nei dintorni di Firenze, dove firmò e datò un ciclo di affreschi nella cappella del Santissimo Sacramento (Consegna delle chiavi a Pietro, Ritrovamento del corpo di san Quintino, Martirio dei santi Stefano, Quintino, Lorenzo, Benedetto e Bernardo e Gloria di Dio Padre tra gli Evangelisti), commissionati dall'abate Attilio Bonucci, e alcune decorazioni mal conservate in una sala interna del convento (Estasi di san Bernardo e Madonna col Bambino tra due santi vescovi)[1]. Entro la fine dell'anno dipinse anche le tre lunette con Cristo servito dagli angeli nel deserto nel refettorio della Badia Fiesolana[1]. Nel 1630 rientrò nell'orbita delle commissioni medicee, sebbene ancora nella periferia toscana, anche perché in città si era diffusa la peste. Affrescò infatti quattordici lunette nel loggiato esterno del santuario della Madonna di Fontenuova a Monsummano, coi miracoli della miracolosa immagine ivi conservata, alla cui diffusione del culto parteciparono attivamente il granduca e la sua famiglia. L'impresa gli fu pagata fino al 1633, e comprese anche una rappresentazione dell'eucaristia nel lato posteriore dell'altare che guarda al coro, eseguita in appena cinque giornate[1]. Lo stesso anno decorò il cortile di villa il Pozzino, nei pressi di Firenze, per Giovan Francesco Grazzini, che gli richiese un inconsueto ciclo di favole mitologiche licenziose ispirate all'Asino d'oro di Apuleio, corredate da versi satirici composti dallo stesso pittore[1]. Proprio per scongiurare la fine dell'epidemia di peste, gli vengono attribuiti alcuni tabernacoli devozionali databili al 1630-1633. Altre opere nei dintorni di Firenze sono da alcuni considerate gli affreschi nella cappellina del Santo Sepolcro presso la chiesa di Santo Stefano in Pane e nell'oratorio della villa degli Arcipressi, entrambi commissionati da Luca Mini "provveditore al Guardaroba" della villa medicea della Petraia, ma che la maggior parte degli studiosi riferisce invece, entrambe, a Domenico Pugliani o a un altro artista della loro cerchia[1]. Lavorò poi a Pistoia (1633), al piano nobile di palazzo Pallavicini Rospigliosi (Storie di santa Caterina, in omaggio probabilmente a Caterina di Vincenzo Rospigliosi)[1] e all'oratorio di San Rocco. In quell'anno è documentata anche la sua prima opera fiorentina dal rientro a Roma, gli affreschi nel refettorio di Santa Trinita. Si tratta di tre lunette con Cristo fa arrostire il pesce, Gesù a casa di Marta e Maddalena, Gesù a casa di Marta e Maddalena dopo la resurrezione di Lazzaro, mentre il resto del ciclo fu concluso da Nicodemo Ferrucci e dal frate Jacopo Confortini, dopo il suo abbandono per ragioni ignote[1]. Nell'orbita dei MediciNel 1633 realizzò quello che è considerato uno dei suoi capolavori, l'affresco della Quiete che pacifica i venti a villa la Quiete, commissionato in tutta probabilità, diversamente da quanto sostiene il Baldinucci, da Cristina di Lorena, il cui nome compare in un curioso anagramma mascherato da inno iscritto su un cartiglio retto da putti in volo[1]. Ancora nel 1634 decorò una villa medicea, quella di Mezzomonte per Giovan Carlo de' Medici, con Ganimede accolto da Giove e Caduta di Ebe[1]. A questi anni sono riferiti anche una serie di dipinti da cavalletto quali il Matrimonio mistico di santa Caterina (galleria Palatina), Venere che pettina Amore e Prima notte di nozze, già nella quadreria di don Lorenzo de' Medici alla villa della Petraia. Inoltre l'artista sperimentò una serie di supporti insoliti come le tegole in terracotta e le stuoie di giunco (Pittura alla Galleria Palatina, e altre piccole opere a soggetto mitologico e veterotestamentario in gran parte agli Uffizi), per lo più destinate alla decorazione delle ville[1]. Nel 1635 l'artista ricevette un ultimo incarico ufficiale, quando Ferdinando II de' Medici gli affidò la soprintendenza per decorare il grande salone detto poi degli Argenti nell'appartamento estivo al piano terra di palazzo Pitti, a celebrazione delle sue nozze con Vittoria della Rovere. L'artista, con una serie di aiuti tra cui il giovane promettente Volterrano, fece in tempo a decorare la volta (Unione allegorica delle case Medici e Della Rovere, Cupido presenta a Marte il marzocco e Flora con le ninfe dell'Arno e il dio Pan) e le pareti est e sud con temi celebrativi di Lorenzo il Magnifico e Casa Medici in generale (Tempo distrugge l'eredità del mondo antico, Distruzione del monte Parnaso e la Fama mostra alla Toscana e alla Munificenza i filosofi esuli)[1]. Di lì a poco infatti il pittore perse il favore della corte per il suo troppo tergiversare e accettare altri incarichi (come i lavori per Lorenzo Pucci), venendo licenziato e privato delle rendite connesse al servizio a corte. Ne seguì poco dopo la sua improvvisa morte, per una gangrena al ginocchio mal curata da medici ambulanti, il 9 dicembre 1636[1]. Le opere incomplete, come l'altare nella chiesa di San Felice in Piazza, vennero completate da suoi allievi e colleghi. Fu sepolto nella chiesa di San Pier Gattolino: il luogo esatto della tumulazione è ignoto, ma in sagrestia c'è una lapide che lo ricorda. La casa natale del pittore si trova a San Giovanni Valdarno in corso Italia 105, e fa parte dell'iniziativa Musei, Case della memoria per la conservazione e diffusione della storia dell'arte toscana. A Firenze resta inoltre una lapide su quella che fu una sua abitazione in via Romana. Opere
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