L'Archivio di Stato di Napoli è un ufficio periferico del Ministero della cultura, che provvede alla conservazione, alla tutela e alla promozione del patrimonio documentario e ne favorisce la fruizione da parte degli studiosi e dei cittadini. L’Istituto esercita inoltre la sorveglianza sugli archivi degli uffici periferici dello Stato che hanno sede nella provincia di Napoli.
Fondato nel 1808, dal 1845 ha sede nel complesso monumentale dei Santi Severino e Sossio. Con i suoi quattro piani e i suoi depositi di oltre settanta chilometri lineari di documenti, l’Archivio napoletano rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per la ricerca nel settore della storia medievale, moderna e contemporanea d’Italia e d’Europa, nonché in maniera precipua, della storia del Meridione d’Italia. Uno dei fondi più preziosi e ricco di notizie è quello degli archivi dei notai, con i protocolli rogati fra il XV e il XIX secolo.
Acquisiti più recentemente, gli archivi privati dell’intellettuale Paolo Ricci, della scrittrice Annamaria Ortese e dell’architetto Luigi Cosenza, conservato presso la Sede sussidiaria di Pizzofalcone.
Di particolare interesse è, inoltre, l’Archivio Borbone acquistato nel 1951, che ha integrato la documentazione di Casa Reale andata parzialmente distrutta nel 1943 durante la guerra.
Pezzi preziosi dell’Archivio: il Codice di Santa Marta, fogli di pergamena miniati con gli stemmi dei sovrani e dei membri delle famiglie più notevoli del Regno; la raccolta di sigilli e matrici e la Carta lapidaria, un documento dell’VIII secolo inciso su marmo, recuperato in una campagna presso Cuma.
L'Archivio di Stato nacque nel periodo napoleonico, il 22 dicembre 1808, con un regio decreto a firma di Gioacchino Murat per concentrare in un sol luogo gli antichi archivi del regno ("Archivio Generale del Regno": gli archivi della Regia Camera della Sommaria, della Zecca, della Cancelleria e dei Viceré, quelli della Giunta degli abusi, della Giunta di Sicilia e della Curia del Cappellano maggiore, e infine gli archivi degli antichi banchi pubblici, degli arrendamenti e di tutte le antiche amministrazioni). Di fatto, però, gli archivi dei Banchi non fecero mai parte del patrimonio dell’Archivio Generale. Essi furono concentrati presso l’ente bancario che diventerà il Banco di Napoli, e tale è tuttora la loro sistemazione.
In continuità con il lavoro critico iniziato da Camillo Minieri Riccio nel 1874, l'archivio napoletano, sotto la direzione di Bartolommeo Capasso, dal 1882 al 1900, poté beneficiare di un rigoroso ammodernamento[1][2] e, in particolare, di un «magistrale riordinamento della Cancelleria angioina»[3], che tuttavia fu precorso, ad insaputa dello stesso Capasso, dal riordino dei volumi angioini e di altre carte, ad opera di Annibale Mastrogiudice, archivario dell'Archivio della Regia Zecca di Napoli per circa un quarantennio nel Cinquecento[4].
I danni della seconda guerra mondiale
Perdite più gravi avvennero durante la seconda guerra mondiale: sulla sede centrale, vicina al porto, caddero bombe e spezzoni incendiari e, in seguito all'esplosione di una nave di munizioni, perfino lamiere infocate, che provocarono l'incendio e la totale distruzione dei depositi dell'ultimo piano di un'ala del fabbricato. Il bombardamento del 4 agosto1943 semidistrusse l'edificio di Pizzofalcone e travolse nella rovina tutte le scritture. L'ultimo e più grave disastro si verificò nel deposito di sicurezza di villa Montesano nel Nolano, presso San Paolo Belsito, dove erano state trasportate le serie più preziose, quando non si supponeva che la guerra si sarebbe spostata sul territorio nazionale[5]: nel settembre 1943 le truppe tedesche in ritirata vi appiccarono il fuoco per rappresaglia, su ordine del comando della Wehrmacht, ben consapevole dell'immenso valore del suo prezioso contenuto.[6]
Sia pure nell'ambito dello sconcerto per la tragedia in cui versava il paese, l'evento ebbe un grande rilievo mediatico[7]: il 2 gennaio 1944 ne diede conferma in tutt'Italia la trasmissione pomeridiana di Radio Londra, ma già sul suo diario del 14 ottobre 1943Benedetto Croce ne commentava la gravità:
«… con l'animo di chi ha visto morire la persona più cara, ma con la mente di chi misura l'immensità della perdita per la nostra tradizione e per la scienza storica…»
Il totale delle perdite non è stato mai completamente inventariato, ma una ricognizione approssimativa fu compiuta nel Rapporto finale sugli Archivi della commissione alleata (1946)[8], nella pubblicazione del Ministero dell'Interno del 1950[9] e nella Guida generale del 1986[10]. Per essa, risultano perduti negli incendi tutti i 378 volumi in pergamena contenenti i Registri delle Cancellerie angioina e aragonese (che coprivano un vastissimo intervallo temporale, dal 1265 al 1505), l'unico registro superstite (aa. 1239-1240) della cancelleria imperiale di Federico II[6], gran parte dei processi indicizzati della Regia Camera della Sommaria (tranne 5 volumi, relativi a 39 processi; si conservano inoltre alcune decine di migliaia di fascicoli processuali non ordinati), i registri del periodo vicereale attinenti al Consiglio collaterale (i processi penali sono andati tutti distrutti, ad eccezione del fascicolo relativo agli anni 1588- 1590), parte del fondo contenente gli atti della Segreteria dei viceré (1555-1734), il fondo della Cappellania maggiore (sec. XV-1808), l'Archivio riservato di Casa reale borbonica (1794-1823), l'Archivio amministrativo della medesima Casa reale (1712-1830), i fondi attinenti vari ministeri del Regno (a partire dalla Segreteria di Stato (1728-1807) compresa la Segreteria particolare del re (protocolli del Consiglio di Stato, 1821-1861), l'intero incartamento dei processi politici dell'Ottocento borbonico.
Soltanto undici faldoni furono fortunosamente sottratti alle fiamme.
Ricostruzione della Cancelleria angioina
Riccardo Filangieri, prima Soprintendente per le Province Napoletane dal 1940 al 1952 e poi Direttore dell'Archivio di Stato di Napoli, dedicò tutta la parte finale della sua vita a ricostruire – da varie fonti, sia pur incomplete e spesso di mera indicizzazione – i contenuti dell'immenso patrimonio perduto (in termini di storia diplomatica del Regno delle due Sicilie, curando i primi volumi della raccolta dei Registri della cancelleria angioina edita dall'Accademia Pontaniana). Inoltre intraprese una politica di acquisizione, mediante acquisto, deposito o donazione, degli archivi delle famiglie nobili napoletane, in quanto la documentazione in essi raccolta consente di integrare le numerose perdite, dolose o accidentali, dei documenti prodotti dalle istituzioni pubbliche del Regno meridionale.
Servizi e attività
L'archivio dispone di servizi di ricerca e consultazione in presenza e online, fotoriproduzione, nonché le scuole di formazione di paleografia, diplomatica e archivistica, riconosciute come corsi post lauream dal decreto 1 ottobre 2021, n. 241.[11]
Alcuni spazi della sede principale sono anche concessi per eventi ed attività esterne.[11]
Sedi
Sede principale di via del Grande Archivio
La sede principale è in via del Grande Archivio, nel monastero dei SS. Severino e Sossio, nel cuore del centro antico della città. La sua storia è legata alla presenza dei Benedettini che, fin dal IX secolo, vi avevano fondato un cenobio dove nel 902, trasferirono il corpo di S. Severino e successivamente le reliquie di S. Sossio.
L’articolato complesso si incentra su quattro atri-chiostro del XVI e XVII secolo accanto alla chiesa dedicata ai due santi.
Uno dei chiostri, detto Atrio del Platano, costituisce la parte più antica del monastero e prende il nome dall’albero che -secondo la leggenda- sarebbe stato piantato da San Benedetto. Il ciclo degli affreschi rinascimentali che lo decora è il più completo della città e raffigura episodi della vita del Santo. Fu ultimato nel 1515 da Antonio Solario detto “lo Zingaro”. Il Primo Atrio corrisponde all’ingresso originario su vico S. Severino.
Di grande suggestione è l’Atrio dei Marmi (Atrio quarto), situato al primo piano, iniziato nel 1598 e completato nel 1623 allo scopo di espandere il monastero verso Est con un quarto atrio, che rappresenta il culmine del programma di rinnovamento del monastero. Il chiostro è decorato con marmi di Carrara e al suo centro si trova la statua raffigurante la Teologia scolpita da Michelangelo Naccherino nel XVII secolo, in precedenza posta sulla facciata del Museo archeologico Nazionale di Napoli.[12] Sono di notevole interesse il Capitolo dei monaci, oggi Sala Catasti, affrescato da Belisario Corenzio agli inizi del ‘600 con parabole, figure allegoriche e scene del Vangelo, nonché l’ex Refettorio, ora Sala Filangieri, con il grande affresco della moltiplicazione dei pani e dei pesci e l’allegoria della fondazione dell'ordine benedettino, anch’esso opera del Corenzio.
Si conservano anche dei frammenti della catene della nave Caterina Costa, proiettati dall'esplosione avvenuta al porto di Napoli del 28 marzo 1943 fino all'interno del chiostro.[12] Il chiostro è stato restaurato nel XVIII secolo, come riportato sulla lapide all'ingresso del refettorio.
La pregevole Sala Tasso, così chiamata in ricordo del soggiorno del poeta Torquato Tasso nel monastero, avvenuta dal 2 giugno fino alla fine di ottobre del 1594, componendo alcuni dei sonetti delle Rime morali. La sala ospita anche il preziosissimo e famoso Codice di Santa Marta, una raccolta di stemmi reali e nobiliari, rilegata in pergamena, iscritti alla confraternita del Collegium Disciplinatorum Sanctae Marthae, che aveva sede nella chiesa di Santa Marta.[12]
Il Chiostro del Platano (Atrio terzo), costruito nella seconda metà del XV secolo, era originariamente composto da un colonnato completamente aperto verso il giardino centrale in cui è presente un grande platano orientalis, che secondo una leggenda venne originariamente piantato dallo stesso San Benedetto che diede poteri medicinali miracolosi alle foglie, fino alla sostituzione del 1953 per un grave attacco di termiti. Il portico era aperto anche nel loggiato superiore,[12][13] ma venne chiuso su entrambi i piani nell'XIX secolo. Le pareti perimetrali del chiostro sono completamente decorate dal ciclo di affreschi sulla vita di San Benedetto ad opera del pittore Antonio Solario, detto lo Zingaro, con la collaborazione di Pietro da Tolentino, che raccontano la vita del santo dalla partenza da Norcia fino all'incontro con Totila re dei Goti, interrompendosi alla ventesima scena per un motivo non chiarito.[12]
Nel 1799 il monastero fu destinato per breve tempo a sede dell’Accademia di Marina; nel 1845 l’Archivio di Stato venne definitivamente trasferito nel complesso monastico. La struttura fu adattata alla nuova funzione d’uso per cui furono realizzati arredi lignei destinati alla conservazione della documentazione.
Di grande pregio anche la Farmacia, caratterizzata da scaffali intarsiati e da una bella pavimentazione, la biblioteca, la Sala Diplomatica, il Salone degli Archivi gentilizi, la Regia Camera della Sommaria e la sede delle scuole di paleografia, archivistica e diplomatica.
Sede sussidiaria di Pizzofalcone
La sede sussidiaria di Pizzofalcone, detta anche "Archivio Militare", era la villa rinascimentale di Andrea Carafa della Spina, conte di Santa Severina. Fu in seguito destinata a vari usi, da quartiere militare per i soldati spagnoli a sede del Real Officio Topografico. Nel 1855 l’edificio è ceduto dall’Amministrazione militare all’Archivio di Stato.
Essa conserva soprattutto documenti di storia militare e archivi provenienti da magistrature militari, fra le quali il Ministero di Guerra e Marina di epoca borbonica, l’Orfanotrofio militare, i Tribunali militari, le carte del Reale Officio Topografico, ma anche i registri dei Distretti militari di Napoli, Aversa e Nola, comprendenti i fogli matricolari degli arruolati, e le carte dell’Ufficio provinciale di leva di Napoli. Sono inoltre ospitati, in occasione dei lavori di ristrutturazione della sede centrale altri fondi, tra cui gli Archivi notarili dal secolo XV al secolo XVIII.
^Simonluca Perfetto, «Era grandissima confusione che non se posseva ritrovarse quella scriptura che si desiderava e cercava»: il riordino dell’archivio della Regia Zecca di Napoli (1545-63), in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CXXXVII (2019), pp. 243-280.
^(EN) Sanja Zgonjanin, The Prosecution of War Crimes for the Destruction of Libraries and Archives during Times of Armed Conflict, Libraries & Culture, Vol. 40, No. 2 (Spring, 2005), pp. 128-144.
^Andrea Capaccioni, Ruggero Ranieri, Le biblioteche e gli archivi durante la seconda guerra mondiale: il caso italiano Editore Edizioni Pendragon, 2007, pp. 411-413. Di tale rilevanza nell'immaginario collettivo resta traccia, ancora settant'anni dopo, nella citazione dell'evento in un'interrogazione parlamentare: v. ((http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=17&id=811858)).
^ Commissione Alleata - Sottocommissione per i Monumenti e le belle Arti e Commissione Alleata - Sottocommissione per i Monumenti e le belle Arti, Rapporto finale sugli Archivi, Roma, 1946. URL consultato il 10 gennaio 2022 (archiviato dall'url originale l'11 gennaio 2022).
^abServizi, su archiviodistatonapoli.it. URL consultato il 22 agosto 2022.
^abcdeBrochure ufficiale "Il Grande Archivio di Napoli - Monumento/Documento", Archivio di Stato di Napoli.
^Il registro Cunti del Monastero testimonia che maestranze toscane e lombarde lavorarono alla costruzione del chiostro tra il 1450 e il 1463.
Bibliografia
Ugo Bellocchi, Bandiera madre - I tre colori della vita, Reggio Emilia, Scripta Maneant, 2008, ISBN88-95847-01-6.
Gian Luca Borghese, Les registres de la chancellerie angevine de Naples. Un exemple de destruction et reconstitution de sources archivistiques à travers les siècles, Médiévales 2015/2 (n° 69).
Simonluca Perfetto, «Era grandissima confusione che non se posseva ritrovarse quella scriptura che si desiderava e cercava»: il riordino dell’archivio della regia zecca di Napoli (1545-63), in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CXXXVII (2019), pp. 243–280