I da Camino, detti anche Caminesi, furono una nobile famiglia trevigiana protagonista della storia medievale del Triveneto. Originariamente la famiglia era nota come da Montanara.
Il casato prende il nome da Camino, piccolo centro abitato veneto attuale frazione di Oderzo, in provincia di Treviso. Ivi sorgeva un castello che in realtà ebbe, per buona parte della storia della famiglia, un ruolo piuttosto secondario in quanto essa, una volta ascesa a protagonista della politica veneta, scelse come principali sedi del proprio potere centri più importanti, a cominciare da Serravalle, centro che oggi corrisponde alla parte settentrionale dell'odierna Vittorio Veneto e che all'epoca aveva una rilevante importanza economica, oltre ad essere dotata di un castello facilmente difendibile[1][2].
Lo stemma familiare consisteva in uno scudo troncato di nero e di argento: generalmente, in araldica, la semplicità di un blasone indica l'antichità della famiglia a cui appartiene. Storici moderni hanno ipotizzato l'esistenza di alcune varianti a questo stemma: in particolare fu sostenuto che, a seguito di una presunta separazione della famiglia in due rami avvenuta verso la metà del XIII secolo, il cosiddetto "ramo inferiore" avrebbe adottato un blasone dai colori invertiti, e pure aggiunto una croce in ricordo del proprio capostipite, morto durante la Terza crociata[3]. Questa ipotesi, non essendo sostenuta da alcuna prova documentale o archeologica, è stata rigettata dagli storici contemporanei[4].
Origini
Piuttosto oscure sono le origini di questa famiglia. Secondo una tradizione, i Caminesi discenderebbero, come i Colfosco, da un ramo della famiglia Collalto e in particolare da un figlio del capostipite Rambaldo I di nome Guitcillo[5]. Manca una documentazione che possa confermare ciò, tuttavia appare evidente come tra queste famiglie esistessero dei rapporti di stretta parentela che perdureranno per secoli[6][7]. Un ulteriore indizio a favore di questa ipotesi è l'evidente somiglianza tra gli stemmi dei due casati.
Non è stata provata neppure la notizia secondo cui, nel 1037, l'imperatore Corrado di Franconia avrebbe donato a Guido figlio di Guitcillo, e ai suoi discendenti, il castello di Montanara, alle pendici del Cansiglio. Vero è che proprio in quell'anno Corrado si trovava in Italia per emanare la Constitutio de feudis, documento che riformò il diritto feudale in favore dei piccoli vassali[3][8].
Per un periodo, quindi, la famiglia fu nota con il poleonimo "da Montanara". Il 3 maggio 1089 Alberto e Guecello da Montanara, figli o nipoti di Guido, ottennero dal vescovo-conte di Ceneda Aimone il feudo di Camino, dove finirono per stabilirsi. Non si sa perché i due fratelli avessero preferito lasciare il castello di Montanara; certamente Camino rappresentava una località strategica sotto vari punti di vista: equidistante dalle Prealpi e dal mare Adriatico, dal Piave e dalla Livenza, godeva della vicinanza della Postumia e soprattutto del Monticano, via d'acqua navigabile; si trovava inoltre alle porte di Oderzo la quale, pur essendo una città decaduta rispetto all'epoca romana, manteneva una certa importanza come centro fortificato alle dipendenze del vescovo di Belluno[9].
Per qualche decennio ancora la casata mantenne il poleonimo "da Montanara", per divenire poi nota come "da Camino"[6]: il primo documento che attesta tale mutazione è la pace di Fontaniva del 28 marzo 1147[1].
Ascesa
Nel corso dell'XII secolo i da Montanara-da Camino, grazie ai legami con le gerarchie ecclesiastiche e a un'efficace strategia matrimoniale, compirono una rapida ascesa nel panorama politico veneto divenendone una delle famiglie più rilevanti. Nella seconda metà del secolo la famiglia si ritrovò a signoreggiare su numerosi feudi, estesi nel Cenedese, nel Bellunese e nel Cadore.
La prima importante acquisizione territoriale fu proprio quella del Cadore e del Comelico nel 1135 per conto del patriarca di AquileiaPellegrino di Ortenburg. La loro presenza sulla regione continuerà ininterrottamente sino al 1335[7]; a questo proposito si presuppone che da un ramo del casato Caminese discenda l'antica famiglia pievigina dei Vecellio, visto in particolare l'uso frequente dei medesimi prenomi[11] e l'evidente somiglianza degli stemmi delle rispettive famiglie.
La fortuna della famiglia si deve però al matrimonio tra Guecellone II e Sofia di Colfosco, avvenuto nel 1154: figlia di Valfredo e Adeleita da Porcia, ella era quindi l'erede delle contee di Zumelle e di Ceneda. Nel 1155 i coniugi ricevettero in feudo anche il castello di Pieve di Cadore e nel 1160 altri beni nella stessa zona; Nel 1162 Sofia inoltre ricevette dallo zio Guido Maltraversi il castello di Serravalle, che successivamente diverrà una delle più importanti residenze della famiglia[12].
Figura dalla forte personalità, e per questo molto romanzata, Sofia partecipò attivamente alle guerre dei comuni italiani contro le mire di Federico Barbarossa, e questa sua presa di posizione fu alla base della successiva adesione dei Caminesi al partito guelfo. Viceversa, l'atteggiamento politico del marito sembrò essere più ambiguo, forse per garantirsi il predominio su Conegliano e Ceneda in contrasto con il comune di Treviso[12].
Nell'agosto del 1177, Guecellone II e il figlio Gabriele II risultano essere presenti a Palazzo Ducale a Venezia per la firma della cosiddetta pace di Venezia: con loro il doge Sebastiano Ziani, Federico Barbarossa, papa Alessandro III e un largo stuolo di nobili e di ecclesiastici di alto rango, a dimostrazione del prestigio raggiunto in quel momento dalla famiglia[1].
Le contese con gli Ezzelini
«Tra le case nobiliari ed eccellenti che ci sono state, quattro ai miei tempi molto si distinsero per fama e gesta: la prima d'Este, la seconda da Camino, la terza da Romano, la quarta da Camposampiero.»
La fine del dodicesimo secolo coincise per la famiglia con un periodo di difficoltà, aggravato dalle morti di Guecellone II e Gabriele II, quest'ultimo appena quarantenne. Il Comune di Treviso, sentitosi minacciato nella propria indipendenza, riuscì due volte a sottomettere i giovani figli di Gabriele alla condizione di cittadini (1183 e 1199): questo tuttavia fu il presupposto che portò i Caminesi ad acquisire presso il capoluogo della Marca grande autorità, a riprendere così la politica guelfa di Sofia di Colfosco e diventare ben presto i principali sostenitori della fazione filo papale in contrasto a quella ghibellina filo-imperiale, guidata dalla potente famiglia vicentina dei Da Romano[1].
La lunga e complessa lotta tra le due famiglie per il predominio in città, caratterizzata da vari capovolgimenti di fronte e cambi di alleanze, coinvolse anche altre potenti famiglie del territorio, come i Collalto, e i Comuni vicini, e va quindi inserita nel più ampio conflitto di potere tra le famiglie feudali e i Comuni che caratterizzò la storia italiana di quel periodo. Per due volte i Caminesi riuscirono ad ottenere la preminenza in città, ovvero dopo il 1235 e nel 1239: la seconda volta con alleato Alberico da Romano, temporaneamente staccatosi dal partito imperiale, che presto riuscì ad essere solitario padrone della città usurpando il potere agli alleati Caminesi e guidando la città con una politica ghibellina[1][13].
A spostare ulteriormente l'ago della bilancia a vantaggio dei ghibellini furono negli stessi anni le celebri campagne militari di Ezzelino III da Romano, fratello di Alberico, e la sua forte alleanza con l'imperatore Federico II di Svevia. La morte di quest'ultimo nel 1250, e la "crociata" guelfa lanciata da papa Alessandro IV nel 1254 furono però fatali per il condottiero vicentino e la sua famiglia, la quale fu sconfitta e sterminata nel 1260.
Gli stessi guelfi della coalizione vincitrice si strinsero in seguito intorno a Gherardo III da Camino per sconfiggere il rinascente partito ghibellino guidato dalla famiglia Da Castelli, nominandolo signore assoluto della città nel 1283 e segnando quindi l'inizio della signoria caminese su Treviso[3].
La presunta divisione della famiglia nel 1233
Gli storici moderni che per primi hanno cercato di ricostruire metodicamente la storia del casato, a partire dal Verci alla fine del Settecento[3], sostennero che all'inizio del dodicesimo secolo i figli di Gabriele II avrebbero sentito l'esigenza di procedere ad una ridistribuzione interna dei propri feudi e dei beni allodiali siti in diocesi di Ceneda per spegnere definitivamente alcuni dissapori emersi per questioni di eredità. Questa operazione sarebbe avvenuta nel 1233, approfittando del fatto che in quel momento il vescovo di Ceneda era un congiunto, ovvero Alberto da Camino.
A Guecellone IV sarebbero stati assegnati quasi tutti i castelli della zona pedemontana, a partire da Serravalle, mentre il fratello Biaquino II sarebbe stato infeudato del castelli della pianura, ovvero quelli dell'area di Oderzo e Motta di Livenza, più Tarzo e Credazzo.
In seguito, tenendo conto della posizione geografica dei suddetti feudi, i discendenti di Guecellone avrebbero dato vita al ramo di sopra o superiore della famiglia, e i discendenti di Biaquino al ramo di sotto o inferiore.
Già lo storico Girolamo Biscaro nel 1925[14] mise decisamente in dubbio l'effettiva rilevanza di tale separazione, sostenendo che i documenti che la attesterebbero furono almeno in parte falsificati un secolo dopo in occasione del processo seguito all'estinzione del "ramo superiore" della famiglia[15]. Gli storici contemporanei sono sulla stessa linea del Biscaro; la distinzione tra da Camino "di sopra" e "di sotto" continua comunque ad essere utilizzata per questioni di praticità[2][16]. Essa però nelle fonti primarie trova riscontro solo in un breve periodo a metà del Trecento, e fu utilizzata con ogni probabilità per evitare di confondere i membri della famiglia omonimi[13], visto che essi non usavano i numeri ordinali per distinguersi[17].
La signoria a Treviso
Gherardo era figlio di quel Biaquino III che aveva guidato la coalizione guelfa contro gli Ezzelini negli anni '50: appena ventenne alla definitiva sconfitta di questi ultimi, negli anni immediatamente successivi dimostrò grande acume politico, entrando subito nel Consiglio dei Trecento di Treviso e facendosi eleggere Capitano del popolo di Feltre e Belluno a venticinque anni.
Dopo aver ottenuto la stessa carica a Treviso il 15 settembre del 1283 cercò subito, riuscendoci, di consolidare il proprio potere cancellando definitivamente il partito ghibellino e ogni forma di opposizione; cercò inoltre, con risultati altalenanti, di espandere il proprio dominio anche in Friuli entrando più volte in collisione con gli interessi del Patriarca di Aquileia e dei signori locali[18].
Meglio riuscì a fare a fare in pace, conservando buone relazioni con i Comuni e i signori vicini, cercando nuove alleanze con i matrimoni dei figli, diventando arbitro di pace nella Marca e fuori, costruendosi quindi in tutta Italia la reputazione di sovrano illuminato ed eccellente mediatore.
Politicamente sostenne la parte guelfa pur evitando di entrare nelle discordie cittadine; nel suo palazzo, le cui tracce sono visibili nel convento di Santa Maria e nell'attigua chiesa di Santa Caterina, volle ospitare scienziati e uomini di cultura a partire da Dante Alighieri, il quale spenderà parole di lode nei suoi confronti nella Divina Commedia e nel Convivio.
Un significativo contributo a livello culturale lo diede anche la figlia Gaia, anch'essa citata nella Commedia, una tra le prime donne in Italia a scrivere poesie in lingua volgare.
Gherardo a Treviso si comportò da vero e proprio signore assoluto, amministrando a piacere la giustizia e i conti pubblici della città, ma allo stesso tempo rafforzò la propria posizione tenendosi in ottimi rapporti con la nobiltà cittadina ed il popolo, per la cura e l'interesse che dimostrò per la prosperità pubblica e appunto la cultura, in particolare per la futura Università e per la Chiesa finanziando le istituzioni religiose cittadine. In questo modo Gherardo riuscì a governare fino alla morte, avvenuta nel 1306, assicurando un pacifico passaggio di consegne al figlio Rizzardo IV[1].
Rizzardo, a differenza del padre, aveva già mostrato più volte arroganza ed ambizione che in seguito lo spinsero ad agire impulsivamente in guerra, in politica e nella vita privata: venne accusato di stupri ed omicidi, tenne rapporti cattivi con Venezia e il Patriarcato di Aquileia e ambigui con le famiglie alleate. Ormai compromesso politicamente, il 10 maggio 1311 a Cremona ottenne da Enrico VII di Lussemburgo, dietro un lauto pagamento, la nomina a vicario imperiale tradendo così sfacciatamente la secolare politica guelfa familiare. Ma poco meno di un anno dopo venne assassinato a seguito di una congiura a cui probabilmente parteciparono anche alcuni suoi parenti.
Guecellone VII ereditò quindi il posto del fratello maggiore ma, dopo aver fatto i suoi stessi errori politici, fu costretto a fuggire dalla città dopo pochi mesi, ponendo fine alla signoria[2].
La decadenza
La fine della signoria su Treviso segna idealmente l'inizio del declino del casato. Negli anni immediatamente successivi irruppe nello scacchiere trevigiano il casato degli Scaligeri di Verona ponendo i Caminesi in una posizione subalterna e dividendoli tra filoveronesi ed antiveronesi. A prevalere saranno quindi i veronesi, che grazie a Cangrande della Scala conquistarono il capoluogo della Marca nel 1329.
Un secondo fronte di scontro era stato aperto pochi anni prima in Friuli: già Gherardo III mirava ad espandere oltre Livenza l'influenza familiare con una saggia politica di alleanze; dopo la sua morte il figlio Rizzardo IV tentò uno strappo fallendo miseramente, nel 1309, un tentativo di farsi eleggere Capitano generale della Patria del Friuli dal Patriarca di Aquileia. Dopo varie vicende altalenanti, il 30 luglio1335 ai Camolli di Sacile l'esercito Caminese venne sconfitto dall'esercito friulano. Rizzardo VI da Camino, alla guida dei suoi, morì pochi giorni dopo per le ferite riportate in battaglia e da allora la sua famiglia rinunciò ad ulteriori tentativi di espansione ad est[18].
L'estinzione del "ramo superiore"
A complicare ulteriormente la situazione per i Caminesi fu la Repubblica di Venezia, ansiosa di estendere il proprio dominio in terraferma a scapito delle signorie venete. Coinvolti nella Congiura del Tiepolo nel 1310, i Caminesi manterranno per tutto il corso del secolo, ed anche oltre, un atteggiamento ambiguo nei confronti della Serenissima: nel 1291, ottenendo dalla famiglia il dominio sul feudo di Motta di Livenza, Venezia aveva iniziato la propria espansione nell'entroterra.
Nel 1339 Venezia riuscì a strappare ai Caminesi vari feudi appartenenti al cosiddetto "ramo superiore" della famiglia, estintosi dopo la morte di Rizzardo VI, in sinistra Piave: tra questi in particolare Serravalle, centro nevralgico della politica familiare. Con ogni probabilità si trattò di un abuso giudiziario ordito dai Veneziani con la complicità del vescovo di CenedaFrancesco Ramponi. Quest'ultimo, essendo appunto da poco deceduto Rizzardo VI senza eredi maschi, aveva dichiarato la famiglia decaduta dei suoi feudi situati nei territori della propria diocesi: ci riuscì al termine di un lungo processo durante il quale furono portati come prova dei documenti apparentemente risalenti alla presunta divisione della famiglia del 1233, ma in realtà falsi, che stabilivano che in caso di estinzione di uno dei due rami della famiglia, l'altro ramo non ne avrebbe automaticamente ereditato i beni[14].
Gli ultimi decenni
Nei decenni seguenti, la famiglia da Camino legherà sempre più il suo destino a Venezia, comprando una casa in città ed entrando a pieno titolo nella nobiltà cittadina, ma perdendo progressivamente ulteriore peso nelle vicende politiche del territorio. Nonostante questo ancora nella seconda metà del secolo, in pieno declino, riuscirono a contrarre matrimoni di prestigio con nobildonne veneziane[16].
Nel 1378, in occasione della cosiddetta Guerra di Chioggia che vide Venezia scontrarsi con la Repubblica di Genova, i da Camino guidati da Gherardo VII si schierarono con quest'ultima all'interno di una grande lega antiveneziana. Lo stesso accadde nel 1411 all'arrivo degli Ungheresi guidati dal celebre mercenario fiorentino Pippo Spano: i Caminesi speravano, in questo modo, di poter riottenere gli antichi privilegi feudali perduti. Venezia, una volta ricacciati gli invasori nel 1420, punì la famiglia spogliandola dei pochi beni rimasti ad eccezione del Contea di Valmareno, ovvero del castello di Cison, che rimase di proprietà di Ercole da Camino senza diritto di successione agli eredi.
Alla sua morte, nel 1422, terminò definitivamente la storia feudale e politica del casato[19].
I Caminesi dopo il 1422
Sebbene dopo il 1422 non abbia più avuto alcuna rilevanza politica, la famiglia ha continuato ad esistere arrivando fino ai giorni nostri. Tuttavia, allo stato attuale degli studi, non esiste un albero genealogico ben documentato che colleghi i Caminesi dell'inizio del XV secolo con coloro i quali nei secoli successivi hanno sostenuto di essere i loro discendenti, in particolare il veneziano Paolo da Camin nel 1782[20] e il torinese Gherardo IX Maria da Camino nel 1958[21]: entrambi, per ricostruire le vicende familiari e l'albero genealogico dal XV secolo in poi, si basarono più su ricordi familiari che su fonti attendibili, commettendo degli errori storici anche grossolani[22].
L'ipotetico esilio tedesco
Secondo queste ricostruzioni Gherardo VI da Camino, dopo essere stato lasciato sul lastrico dai Veneziani, sarebbe emigrato in Germania risposandosi con una nobildonna locale e mettendosi a servizio dell'imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Lo stesso avrebbero fatto i suoi diretti discendenti con gli imperatori successivi: tra questi il bisnipote Livio, che avrebbe partecipato nel 1500 alla dieta di Augusta al seguito di Massimiliano I d'Asburgo e quindi alla Battaglia di Guinegatte (1513), e Zan Batta, figlio di Livio, che avrebbe invece combattuto per Andrea Doria.
All'inizio del Seicento la famiglia avrebbe fatto ritorno in Italia per rivendicare i diritti sui propri beni confiscati dalla Serenissima Repubblica: da Treviso si sarebbero trasferiti poco dopo a San Cassiano del Meschio, sempre nel Trevigiano. Una ricerca di Antonio Cauz (2002)[22] ha mostrato come effettivamente nel Seicento in città viveva una famiglia Da Camin la quale, pur non essendo di alta estrazione sociale, possedeva una tomba di famiglia con tanto di stemma troncato di argento e nero nella chiesa parrocchiale; inoltre in alcuni atti notarili i membri della famiglia vengono appellati con titoli come messere e dominus. Cauz giunge alla conclusione che se costoro avessero millantato origini nobiliari avrebbero potuto essere facilmente smascherati dai contemporanei, prendendo quindi per buona la continuità genealogica tra i da Camino quattrocenteschi e i da Camin cordignanesi.
I da Camin di San Cassiano del Meschio, attuale Cordignano, esercitavano le professioni di sarti e calzolai con ottimi profitti ed aumentando il proprio status sociale: a partire dalla metà del Seicento in famiglia inizia una lunga serie di laureati all'Università di Padova ed uno di loro nel 1664 risulta essere sindaco del paese.
Nel Settecento la famiglia risulta gestire una farmacia: altri componenti della stessa risultano esercitare la professione di medico in paese o altrove (Treviso, Sacile). In particolare fu Francesco Saverio da Camino (1786-1864) a farsi notare come medico, scienziato e patriota a Pordenone, Dolo e quindi Trieste.
Le idee risorgimentali animarono anche altri componenti della famiglia, in particolare quelli appartenenti ad un ramo trasferitosi a Torino: qui in particolare a distinguersi fu Vittorio da Camino (1864-1919), poeta, drammaturgo, giornalista e filantropo, noto frequentatore dei salotti letterari in città.
Tra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento altri, costretti dalle ristrettezze economiche, lasciarono l'Italia per raggiungere il Sud America: nel 1936 in Brasile Francesco III Eugenio da Camino iniziò, invano, le pratiche per ottenere dal governo italiano il riconoscimento dei propri titoli nobiliari e un risarcimento per le confische subite nel secolo precedente dai suoi antenati a causa delle loro idee antiaustriache. Il figlio Rizzardo XI Guecello da Camino, giornalista, fu un prolifico scrittore di testi sulla massoneria[22].
La torinese Verde da Camino, nipote di Vittorio, allo stato attuale degli studi risulta essere l'ultimo discendente del ramo italiano della famiglia[23]. Il ramo brasiliano invece sopravvive in particolare nella zona di Porto Alegre.
Galleria d'immagini
Veduta di Montaner (Sarmede), dove sorse il primo castello della famiglia.
Veduta del castello di Cison, l'ultimo su cui i Caminesi ebbero giurisdizione.
Genealogia
Nota bene: I numeri ordinali che distinguono i componenti della famiglia omonimi sono stati attribuiti arbitrariamente dagli storici moderni e contemporanei. Per questo albero genealogico, così come per l'intera pagina, è stata adottata la numerazione adoperata dall'ultimo genealogista della famiglia Vincenzo Ruzza[24], numerazione che in parte differisce da quella usata in studi precedenti. Non sono stati inseriti i figli naturali.
^Gherardo IX Maria, figlio di Vittorio, in Da Camino 1958 si definiva "ultimo epigono maschio della famiglia" avendo avuto due figlie femmine, entrambe rimaste nubili. Nel 2009 risultava vivente solo la secondogenita Verde (Pizzinat 2009, pag. 317).
Girolamo Biscaro, I falsi documenti del vescovo di Ceneda Francesco Ramponi, in Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medio evo, vol. 43, Roma, 1925, pp. 93-178.
Gherardo IX Maria Da Camino, Da Camino della Marca Trevigiana: millenario caminese, Torino, autoproduzione, 1958.
Massimo Della Giustina, Sigilli Caminesi, in Archivio Storico Cenedese, vol. 1, Vittorio Veneto, 2015, pp. 115-135.
Massimo Della Giustina, Gli Ultimi Caminesi. Genealogia, storia e documenti dei Conti di Ceneda dopo il 1335, Crocetta del Montello, Ateneo di Treviso, 2019, ISBN9788898374090.
Pompeo Litta Biumi, Famiglie celebri italiane. Da Camimo della Marca di Trevigi, Torino, Basadonna, 1883.
Pier Angelo Passolunghi, I Collalto. Linee, documenti, genealogie per una storia del casato, Villorba, B & M, 1987.