Nato a Foiano in provincia di Arezzo da Enrico Chiavacci e Annunziata Doni, ricevette l'istruzione primaria a Cortona, e quella secondaria nel liceo di Iesi.[1]
«Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell'atto puro.»
(Gaetano Chiavacci, L'eredità di Gentile, in «Giornale di metafisica», n. 10, pp. 35-45, 1955[5])
Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra un passato e un futuro illusori.[1]
Riappropriandosi al contempo del criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».[6]
Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi».[7]
Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e smarrisce la «fonte della verità».[2]
L'atto invece, per Chiavacci, proprio perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro».[8]
Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sé senza oggettivarsi»,[9] è per Chiavacci fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui».[10]
Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo Chiavacci, essenzialmente fede.[11]
Opere
Tesi di laurea:
La Commedia nel Decamerone (Iesi, tipografia Fiori, 1912)
Il valore morale nel Rosmini (Firenze, Vallecchi, 1921)
Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La Nuova Italia, 1932), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica».[12]
Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni, 1936), dove il conflitto michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione umana,[13] superato dalla dialettica dell'atto spirituale.[1]
La ragione poetica (Firenze, Sansoni, 1947), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra fatti e concetti, e tra questi e valori;[14] e Il momento della libertà, che assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della religione.[1]
Chiavacci ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter (Firenze, Sansoni, 1958), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce "Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana.[15]
^Così Chiavacci ricorderà il suo primo incontro con la figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da una lettera di Chiavacci a Gentile dell'8 agosto 1943, cit. in Gentile-Chiavacci: Carteggio, a cura di P. Simoncelli, pag. 383, Firenze 1996).