A causa del lavoro del padre Giuseppe, la famiglia si trasferiva spesso da una città all'altra, non di rado molto lontane tra loro (Genova, Trieste, Pescara). La madre raccontava che con il marito si decise di non imporre nulla al figlio, soprattutto in materia di religione, ma che già a sei anni «era interessato a tutto e gli piaceva tanto qualsiasi cosa sapesse di politica».[9]
Nei primi giorni di scuola si dichiarò ateo e non partecipò alle lezioni di religione, cominciando uno scontro con la maestra, che, a suo dire, faceva ogni giorno "la solita propaganda democristiana» e anticomunista".[9]
Non ebbe mai difficoltà a scuola: non fece la quinta elementare e fu il primo agli esami di terza media. Secondo sua madre fu più per la spigliatezza che per una grande applicazione, dato che non studiava molto sui libri di testo, preferendovi quelli che trovava in casa e che leggeva avidamente, specie se di storia.[9]
Prime attività politiche
A Roma, a Monteverde Vecchio, era iscritto ai Pionieri (associazione democratica per ragazzi e ragazze fino ai 15 anni) coi figli di Gian Carlo Pajetta. Quando in quel quartiere si tenne un congresso del partito, fu scelto - aveva appena nove anni - come rappresentante dei Pionieri: la madre ricorda che volle scriversi da solo il discorso per poi saperlo meglio, e che fece un'ottima figura, tanto da far dire a Togliatti «Capirai, se tanto mi dà tanto questo farà strada».[9] Secondo altri, invece, il commento del "Migliore" sarebbe stato assai più stizzito (per la precoce maturità politica del Pioniere): «Ma questo non è un bambino, è un nano!»[10].
La sua militanza politica cominciò nel 1963, quando s'iscrisse quattordicenne alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). D'Alema è sempre stato considerato un «figlio del partito»[9], perché è cresciuto in un ambiente "di partito": il PCI pervadeva la vita dei genitori, numerosi alti dirigenti del PCI erano amici di famiglia e lo conoscevano fin dalla sua infanzia, e in seguito ha percorso tutti i gradi della militanza.
A Genova, città presso la quale frequentò il liceo ginnasio Andrea D'Oria e dove il padre era segretario regionale del PCI, si occupò di organizzare il movimento studentesco nella propria scuola: ad esempio, per le manifestazioni contro la guerra in Vietnam; ma svolgeva anche volontariato in parrocchia e partecipava alla redazione del giornalino parrocchiale, oltre che alle lezioni di religione (pur essendo esonerato), discutendo sempre con l'insegnante, un sacerdote.[9]
A Pisa
Dopo aver conseguito la maturitàclassica, si trasferì nell'ottobre 1967 a Pisa, ammesso a frequentare la Classe accademica di lettere e filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dopo essersi classificato quinto all'esame di ammissione.
All'esame di ammissione conobbe Fabio Mussi, che era appena dietro di lui in graduatoria ed ebbe una camera proprio a fianco alla sua. I due fecero subito amicizia e parteciparono assieme, in posizione eminente, alle grandi contestazioni degli studenti della Normale in quel periodo: recentemente era stato espulso Adriano Sofri, per aver infranto le rigidissime regole del collegio, che vietavano, fra l'altro, l'ingresso di ragazze nelle camere.
Dopo varie occupazioni, il regolamento fu modificato con la liberalizzazione degli accessi e l'abolizione dell'obbligo di pernottamento e dei rientri a orari predeterminati. In seguito, anche Mussi e D'Alema rischiarono l'espulsione, da cui si salvarono grazie all'appoggio di alcuni professori e all'impegno mostrato nello studio.
Grazie a queste esperienze, i due entrarono quasi subito nella dirigenza locale del PCI (il cui segretario, fra l'altro, era amico del padre di D'Alema) e organizzarono molte iniziative e manifestazioni rischiando spesso il carcere e scontrandosi coi più radicali elementi di Lotta Continua, che ritenevano D'Alema troppo allineato alla posizione del PCI.[9]
D'Alema si ritirò dagli studi poco prima di discutere la tesi, che avrebbe dovuto vertere sull'opera Produzione di merci a mezzo di merci dell'economista Piero Sraffa, amico di Antonio Gramsci. Secondo l'amico del tempo Marco Santagata, D'Alema vi rinunciò per non essere sospettato di favoritismi, poiché l'intellettuale del PCI Nicola Badaloni era diventato preside di Lettere e Filosofia;[9] sicuramente influirono notevolmente in questa scelta gli impegni politici assunti da D'Alema prima a livello locale, a Pisa, e poi, a livello nazionale, con la segreteria della FGCI; poco dopo entrò nel comitato federale nel partito.
Alle elezioni amministrative del 1970 viene eletto in consiglio comunale e divenne capogruppo del PCI. In tale veste fu uno dei promotori della giunta guidata da Elia Lazzari tra il luglio 1971 e il maggio 1976, un esperimento inedito sostenuto da PCI, PSI, PSIUP e da una parte della DC per superare un momento di stallo e votare il bilancio comunale.
Con questo, D'Alema conquistò l'attenzione dei vertici del partito e si fece la fama di aspirante capo del partito.[9]
Tuttavia non mancarono le contestazioni della sua linea, che provocò grandi discussioni: era giudicato presuntuoso e si temevano le sue relazioni coi movimenti estremisti.[9] Un altro ostacolo erano i commenti moralisti sulla sua relazione libera e aperta con Gioia Maestro, conosciuta da poco: ostacolo che fu rimosso con un matrimonio celebrato il 19 aprile 1973 e concluso un anno e mezzo dopo[9].
Nel 2013 D'Alema ha così rievocato gli anni attorno al 1968: «Faccio parte della generazione del Sessantotto. Noi eravamo antisovietici, ma nel partito c'era gente che aveva rapporti stretti con l'Unione Sovietica. Erano legami personali e culturali profondi, creati durante la guerra, una guerra antifascista. In seno allo stesso partito, per anni, hanno convissuto diverse culture politiche. Enrico Berlinguer aveva capito qual era il vero volto dell'URSS. Ma prevalse in lui la preoccupazione che una rottura con quel mondo avrebbe portato a una spaccatura nel partito. Questa preoccupazione ha finito per rallentare il rinnovamento necessario del PCI. E così all'appuntamento con la storia siamo arrivati in ritardo».[12]
Segretario della FGCI
Nel 1975Enrico Berlinguer stava cercando un successore per Renzo Imbeni alla guida della FGCI, per la quale voleva un nuovo corso che la risollevasse dalla diminuzione degli iscritti e la portasse più vicina alla linea del compromesso storico[9]. Il successore designato era Amos Cecchi, ma il suo sostenitore Carlo Alberto Galluzzi fu sostituito nella carica di supervisore della FGCI dall'amendolianoGerardo Chiaromonte, amico di famiglia dei D'Alema, che scelse il futuro segretario fra D'Alema e Mussi, optando infine - dopo una cena informale coi due - per il primo, che pure non era formalmente iscritto all'organizzazione come previsto dallo statuto: la scelta di uno sconosciuto sembrò ai membri della FGCI un atto di forza e un attentato all'autonomia dell'organizzazione.
In quel periodo il motto della FGCI era "stare nel movimento": D'Alema cercò di mediare fra la sinistra extraparlamentare e il Partito per evitare una rottura definitiva, inizialmente senza risultati di rilievo. Per dare consistenza a questa prova di dialogo, si creò il settimanale Città futura, che arrivò a vendere 50.000 copie: era diretto da Ferdinando Adornato e ospitava articoli di persone dalle opinioni più varie, animato da Umberto Minopoli, Claudio Velardi, Giovanni Lolli, Goffredo Bettini, Marco Fumagalli, Walter Vitali, Giulia Rodano, Livia Turco, Leonardo Domenici: secondo D'Alema «l'ultima generazione di quadri del partito. Lì si formò un legame umano [...] quel tipo di solidarietà non si è spezzato, anche se abbiamo preso strade diverse». Il giornale chiuse poco dopo.
Dopo il rapimento di Aldo Moro nel 1978, la FGCI prese maggiormente le distanze dagli autonomi, scegliendo di emarginare i terroristi. D'Alema, tuttavia, cercò di recuperare parte del movimento proseguendo la propria opera di mediazione: ebbe occasione di parlare con Berlinguer, che era colpito personalmente dal conflitto generazionale, dato che il figlio Marco Berlinguer si era avvicinato a posizioni estremistiche: in un famoso discorso a Genova preparò alla rottura dell'unità nazionale, con un forte richiamo ai giovani, che «in fondo sono figli nostri», anche nelle esagerazioni.
Ai tempi si ebbe l'impressione che Napolitano e Chiaromonte imputassero questa svolta a sinistra a D'Alema, che, per punizione, fu mandato in Puglia quale responsabile di stampa e propaganda.[9]
In Puglia
Il 19 marzo 1980 D'Alema arrivò a Bari, dove venne accolto dal segretario locale della FGCI, Renato Miccoli, con cui avrebbe convissuto per quasi quattro anni. Come primo atto da responsabile di stampa e propaganda acquistò la televisione locale TvZeta, finanziata anche con dei concerti. Poco dopo fu promosso responsabile dell'organizzazione. Come tale, partecipava a tutti i comizi, manifestazioni e incontri del partito, per costruire un rapporto diretto con la base del partito ed essere indipendente dal resto della dirigenza, che gli era ostile, ritenendo il suo arrivo un commissariamento.[9]
I suoi discorsi inizialmente furono giudicati troppo freddi, ma presto apprese le tecniche oratorie e conquistò la base, così che quando, dopo le fallimentari amministrative del 1981 (vinte dai democristiani), il segretario regionale si dimise, egli fu eletto al suo posto: la sua rafforzata posizione aveva permesso a Berlinguer e Alessandro Natta di premere in suo favore senza esporsi eccessivamente.[9]
Poco dopo, Berlinguer sferrò pesanti accuse al PSI e alla politica clientelare in generale (la cosiddetta questione morale), in particolare in un'intervista[13] a Scalfari ne la Repubblica del 28 luglio 1981. D'Alema si attestò sulla stessa posizione e cominciò una dura battaglia per impedire al PSI di fare della Puglia una solida base politica e di potere: la prima mossa fu ostacolare ogni alleanza locale fra PSI e DC; a questo scopo formò a Bari una giunta di sinistra col socialista Rino Formica, mentre in molti altri comuni si alleò con la DC. Infine, nonostante le resistenze interne al partito, strinse un'alleanza con la DC anche per la Regione.
Nel 1984, nonostante D'Alema fosse soltanto un giovane dirigente locale, Berlinguer lo portò con sé al funerale di Jurij Andropov, per dare un forte segnale di rinnovamento e, si ipotizzò allora, per prepararlo alla successione in un congresso di due anni dopo[9]. Berlinguer però morì poco dopo e gli succedette Alessandro Natta, una soluzione di transizione in vista dell'elezione a segretario di uno dei giovani selezionati da Berlinguer, tra i quali Achille Occhetto e D'Alema erano quelli più in vista. Natta diede a D'Alema l'importante incarico dell'organizzazione, mentre Occhetto fu nominato vicesegretario nel luglio 1987.
Nello stesso anno, poco dopo la morte di Berlinguer, fu colpito da una tragedia personale: la terrificante morte della sua compagna Giusi Del Mugnaio, una ragazza di Bologna poco più che trentenne e che per amore di lui aveva lasciato una brillante carriera politica: fu travolta e uccisa da una auto sulla superstrada tra Bari e Brindisi, il 20 luglio, morendo sul colpo.
Quando il 30 aprile 1988 Natta ebbe un infarto, D'Alema - che in quel periodo era direttore de l'Unità - a Italia Radio parlò per primo della successione, senza discuterne con lui. Nel frattempo Occhetto e D'Alema avevano spinto per modificare la linea del partito, rendendola più aggressiva verso il PSI di Bettino Craxi e più aperta verso un cambiamento del sistema politico imperniato sul maggioritario.
Nel 1990 concluse l'esperienza a capo de l'Unità: Occhetto aveva bisogno di lui per dare seguito alla svolta della Bolognina. D'Alema, da coordinatore della segreteria, si occupava dei rapporti con l'ala sinistra del partito ed era una garanzia di stabilità, per il suo essere un «figlio del partito» che non l'avrebbe mai tradito o gettato a mare; al contrario, Occhetto appariva voler approfittare della svolta per demolire parte della tradizione del partito con cui non era a proprio agio.[9] Infatti nel suo libro Il sentimento e la ragione Occhetto scrive che D'Alema affrontò la svolta descrivendola come una "dura necessità", impostazione che strideva con la sua.
D'Alema divenne subito coordinatore della segreteria del neonato partito, acquistandovi una posizione eminente (anche grazie al controllo delle leve organizzative) e quasi facendo ombra a Occhetto, tanto da essere considerato il vicesegretario di fatto, cosicché, nell'aprile 1992, fu escluso dalla direzione per diventare capogruppo alla Camera (dopo essere stato capolista alle elezioni). Contemporaneamente Walter Veltroni, responsabile della propaganda, fu promosso da Occhetto alla direzione de l'Unità.
Quando nacque il primo governo di Giuliano Amato, D'Alema non votò la fiducia, ma cominciò una fase di dialogo e collaborazione per superare le difficoltà politiche e finanziarie del momento: dopo la crisi del governo, D'Alema fu intervistato - primo ex comunista - dal giornale della DC Il Popolo. In quell'intervista accreditò l'idea di un governo sostenuto dai partiti riformatori ma guidato da un uomo nuovo: era il profilo di Romano Prodi, ma per quella fase si scelse di formare un governo tecnico guidato da Carlo Azeglio Ciampi, per cui giurarono anche dei pidiessini. Essi tuttavia si dimisero dopo che il Parlamento aveva negato ai magistrati l'autorizzazione a procedere contro Craxi; il PDS non votò la fiducia ma D'Alema mantenne dei contatti di collaborazione col governo.
In seguito alla sconfitta elettorale del PDS alle politiche del '94, Achille Occhetto si dimise da segretario e, nella successione apertasi, sostenne il direttore de L'UnitàWalter Veltroni contro D'Alema. Eugenio Scalfari su la Repubblica suggerì di scegliere il segretario con un referendum, che la direzione del partito decise di tenere fra tutti i 19.000 dirigenti centrali e locali del partito.
Piero Fassino si occupava di promuovere la candidatura di Veltroni; Scalfari scriveva che se fosse stato eletto D'Alema non sarebbe cambiato nulla; esperti di immagine lo bocciavano; Giampaolo Pansa lo soprannominava «baffino di ferro» (riferimento al nomignolo «baffone» attribuito a Stalin), alludendo ad un suo presunto attaccamento ad una vecchia concezione della politica e del partito.
Al referendum parteciparono solo 12.000 aventi diritto, di cui circa 6.000 votarono per Veltroni e circa 5.000 per D'Alema; poiché nessuno aveva conseguito la maggioranza, la decisione fu rimandata al Consiglio nazionale, composto di 480 membri, che furono pressati da una parte da Fassino e dall'altra da Claudio Velardi (divenuto il più fedele collaboratore di D'Alema che conosceva fin dall'inizio della sua carriera parlamentare), aiutato da una squadra di dalemiani, quasi tutti ex esponenti della FGCI.[9]
Il 1º luglio 1994 D'Alema fu eletto segretario nazionale con 249 voti contro 173: secondo il diretto interessato, ciò avvenne perché il partito voleva un cambiamento rispetto alla politica di Occhetto, cui Veltroni era troppo vicino.[9]
Come segretario del PDS D'Alema si avvicina ai popolari, contribuendo alla nascita de L'Ulivo, perseguendo, a differenza di Occhetto, una politica di alleanza con le forze di centro-sinistra di ispirazione cattolica e accettando che fosse candidato premier l'ex presidente dell'IRIRomano Prodi, una figura più rassicurante per l'elettorato moderato, benché il PDS fosse nettamente la componente preponderante, dal punto di vista elettorale, all'interno dell'Ulivo.
L'Ulivo al governo
Il 21 aprile 1996, a seguito di una nuova tornata elettorale che vide prevalere la coalizione de L'Ulivo sul centro-destra, riconfermò il proprio seggio. Sotto la sua guida, nel 1996, il PDS diventò il primo partito nazionale (21,1%), prima e unica volta per un partito di sinistra in elezioni politiche (il PCI lo fu ma nelle elezioni europee del 1984).
Il 5 febbraio 1997 D'Alema viene eletto presidente della Commissione parlamentare bicamerale per le riforme istituzionali, dopo aver convinto l'allora leader dell'opposizione Silvio Berlusconi a sostenere la sua candidatura. Il 9 ottobre 1997, dopo che Rifondazione Comunista tolse l'appoggio al governo, Prodi si dimise temporaneamente. D'Alema sarebbe stato orientato verso elezioni anticipate, approfittando della difficoltà del Polo e della stessa Rifondazione. Prodi però riuscì a trovare un compromesso con Fausto Bertinotti e la crisi rientrò.
Nel 1998 D'Alema guida il PDS verso gli "Stati Generali della Sinistra", per unificare il PDS con altre forze della sinistra italiana e creare un unico soggetto politico[15][16]. Il partito si apre in tal modo ai contributi di altre culture riformiste, dandosi una svolta in chiave moderna, eliminando i riferimenti ad un comunismo deteriorato dall'età, infatti decide di "ammainare", ossia togliere dal simbolo lo stendardo recante la falce e il martello ed al suo posto viene inserita la rosa, vessillo del socialismo europeo, e proponendosi come efficace forza socialdemocratica. Il rinnovato soggetto politico prese il nome di Democratici di Sinistra (DS), al quale aderisce oltre il PDS, la Federazione Laburista, il Movimento dei Comunisti Unitari, i Cristiano Sociali, la Sinistra Repubblicana, ossia molti esponenti di estrazione socialista, repubblicana, cristiano-sociale e ambientalista: il 13 febbraio si celebra il congresso costitutivo dei DS, che si presenta quale partito leader della sinistra e del centro-sinistra italiano.[17]
Il 9 ottobre cade il governo Prodi, in seguito a una crisi provocata da Rifondazione Comunista, che patì anche la scissione del Partito dei Comunisti Italiani, contrari alla crisi di governo. Per la formazione di un nuovo governo con maggioranza di centro-sinistra, alcuni parlamentari centristi eletti con il Polo per le Libertà di centrodestra, guidati da Clemente Mastella e ispirati da Cossiga, si mostrarono disponibili a votare la fiducia, a patto che il presidente del Consiglio non fosse Prodi; molti videro in questa richiesta una chiara indicazione di D'Alema come nuovo capo di governo[18]. Scalfaro incaricò quindi D'Alema di formare un nuovo governo come Presidente del Consiglio.
Presidente del Consiglio dei ministri
Primo governo
Il primo governo presieduto da Massimo D'Alema rimase in carica dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999.
D'Alema fu il primo esponente dell'ex PCI ad assumere la carica di presidente del Consiglio. Sostenne l'abolizione del servizio militare obbligatorio e l'intervento NATO nella guerra del Kosovo, attirandosi così le critiche dell'ala pacifista della sua coalizione. Dopo la Guerra del Golfo, fu il secondo bombardamento italiano del dopoguerra, avviato da basi militari NATO presenti sul territorio nazionale e con la partecipazione di mezzi dell'Aeronautica Italiana.[19]
Ad ottobre del 1999 venne annunciata una crisi di governo pilotata allo scopo di farvi entrare I Democratici, ma passarono due mesi perché si arrivasse al D'Alema bis.
Durante il governo D'Alema II viene approvata la discussa riforma del titolo V della Costituzione, la legge sulla Par condicio che regolava l'accesso ai mezzi d'informazione delle forze politiche. Si tratta dell'unico tentativo nel corso della seconda repubblica di limitare, dal punto di vista legislativo, la predominanza nel mondo dell'informazione di Silvio Berlusconi.
Opposizione e Parlamento europeo
Nel 2001 D'Alema si candida nel collegio di Gallipoli, ma non nella quota proporzionale, in polemica col suo partito[24]. Viene eletto alla Camera dei Deputati con il 51,49% dei consensi[25] e si iscrive al gruppo Democratici di Sinistra - L'Ulivo. Dopo l'elezione al parlamento europeo del 2004, D'Alema il 19 luglio 2004 darà le dimissioni da deputato italiano.
Alle elezioni politiche del 2006, vinte della coalizione di centro-sinistraL'Unione, D'Alema viene eletto deputato, rinunciando quindi alla carica di Parlamentare europeo. È stato proposto in modo informale da L'Unione come Presidente della Camera dei deputati, ma lo stesso D'Alema ha poi rinunciato a questo incarico per evitare possibili divisioni all'interno della coalizione e facilitando così la proposta e la successiva elezione di Fausto Bertinotti.
Nel maggio del 2006, alla scadenza del settennato di Carlo Azeglio Ciampi e dopo la rinuncia di quest'ultimo ad un possibile nuovo reincarico, è stato per alcuni giorni proposto in modo informale dal centro-sinistra come Presidente della Repubblica. Data la divisione che il suo nome ha provocato nel mondo politico, l'Unione, dopo una nuova rinuncia di D'Alema, ha preferito convenire per il Quirinale sul nome di un altro esponente dei DS, Giorgio Napolitano, eletto presidente della Repubblica il 10 maggio 2006.
Il 21 febbraio 2007 è stato chiamato in Senato a riferire sulle linee guida di politica estera del governo, dopo aver dichiarato pubblicamente che qualora non si fosse raggiunta la maggioranza sulla mozione il governo si sarebbe dovuto dimettere. L'esito della votazione seguita alla sua relazione (158 favorevoli, 136 contrari e 24 astenuti) ha visto battuto il governo (non essendo stato raggiunto il quorum di voti favorevoli necessario, pari a 160 voti), motivo per cui il presidente del consiglio Romano Prodi ha rassegnato le dimissioni. Rinnovata la fiducia al governo, D'Alema ha ripreso a ricoprire la carica di Ministro degli affari esteri fino alla caduta del Governo Prodi il 24 gennaio 2008.
Da Ministro degli Esteri, il 18 dicembre 2007, ottiene un importante successo come promotore di una moratoria sulla pena di morte approvata per la prima volta nella storia dall'ONU (104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti) dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto per il mancato raggiungimento del quorum.
Altre cariche
È membro della Conferenza dei presidenti di delegazione; della Commissione per il commercio internazionale; della Commissione per la pesca; della Commissione per gli affari esteri; della Sottocommissione per la sicurezza e la difesa; della Delegazione Permanente per le relazioni con il Mercosur; della Delegazione per le relazioni con i paesi del Maghreb e l'Unione del Maghreb arabo (compresa la Libia).
Nell'ottobre 2003, nel corso del 22º Congresso dell'Internazionale Socialista, tenutosi a San Paolo in Brasile, è stato eletto tra i vicepresidenti della stessa. Al successivo 23º Congresso organizzato nel 2008 a Città del Capo è stato riconfermato alla carica per un altro mandato.
Nel 2007 è stato uno dei 45 membri del Comitato nazionale per il Partito Democratico che ha riunito i leader delle componenti del Partito Democratico prima dell'avvio della sua fase costituente.
Attualmente è presidente della Fondazione di cultura politica Italianieuropei e fondatore del movimento politico ReD, sigla di Riformisti e Democratici, che ha suscitato non poche critiche da parte di esponenti dello stesso Partito Democratico evidenziando la possibilità che questa iniziativa potesse causare problemi allo stesso[30]. D'Alema, considerato un'anima critica nei confronti della segreteria diretta da Veltroni, ha comunque smentito qualsiasi ipotesi di nascita di correnti, dichiarandosi ad esse contrario.
Parallelamente all’esperienza politica, D’Alema con la moglie e i figli investe nel settore vinicolo nella cantina “La Madelaine” che si trova tra Narni e Otricoli in provincia di Terni.[36]
Terminata l'attività politica attiva, D’Alema inizia a operare come consulente e lobbista per l’acquisto di ventilatori durante la pandemia di COVID-19 e non solo con la DL&M Advisor srl, società aperta a Roma nel 2019. Tramite questa società è anche socio, sempre dal 2019, della Silk Road Wines («Vini della strada della seta» dall’inglese) che commercializza vino all’estero.[37]
Successivamente apre un'altra società in Albania, la A&I, che offre consulenze istituzionali alle imprese che vogliono internazionalizzarsi e quindi investire in quel paese.[38][39][40]
Vicende giudiziarie
Finanziamento illecito ai partiti
Secondo un'inchiesta di Maurizio Tortorella sul settimanale Panorama, nel 1985 Massimo D'Alema, allora segretario regionale del PCI in Puglia avrebbe ricevuto un contributo di 20 milioni di lire per il partito da parte di Francesco Cavallari, imprenditore barese, "re" delle case di cura riunite[41][42][43]. L'episodio sarebbe stato ammesso da D'Alema in sede processuale, e, sempre secondo quanto riportato da Panorama il giudice Russi nel decreto di archiviazione del caso avrebbe aggiunto le seguenti considerazioni: "Uno degli episodi di illecito finanziario, e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell'onorevole D'Alema (...)"[44]. L'inchiesta sottolinea inoltre come all'epoca dei fatti la vicenda non avesse trovato spazio sulla stampa[45]. Il reato è risultato già prescritto all'inizio delle indagini.[42][46]
Sospetto di concorso in aggiotaggio nella scalata alla BNL
Per D'Alema è stato ipotizzato dal GIPClementina Forleo il concorso in aggiotaggio[47] nell'ambito della scalata alla Banca Nazionale del Lavoro (BNL) organizzata dalla Unipol di Giovanni Consorte. Il giudice Forleo richiese nel 2007 al Parlamento italiano la possibilità di utilizzare le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche[48] che coinvolgevano D'Alema, Consorte e Piero Fassino nel procedimento a carico degli scalatori, procedimento che peraltro non vede D'Alema tra gli indagati.
Secondo il Parlamento europeo - chiamato dal Parlamento italiano a pronunciarsi in materia, in quanto D'Alema era parlamentare europeo all'epoca dei fatti - i testi delle telefonate tra D'Alema e Consorte[48] non potranno essere utilizzati in quanto già esistono agli atti elementi di prova sufficienti a suffragare l'accusa nei confronti degli autori della scalata, peraltro già rinviati a giudizio.[49].
Vendita di vino e libri alla cooperativa CPL Concordia
Nel marzo 2015 nelle indagini sul caso di tangenti a Ischia, è emerso che la CPL Concordia aveva acquistato nell'arco di 4 anni 500 copie del libro di D'Alema Non solo euro e circa 2.000 bottiglie di vino da una cantina a lui correlata. Nell'esame delle carte della CPL Concordia emerse che la Cooperativa aveva anche effettuato alcune donazioni per alcune migliaia di euro alla Fondazione Italiani Europei da parte della Cooperativa Cpl Concordia, senza alcuna relativa notizia di reato a carico della Fondazione.[50]
Causa contro L’Espresso per l’inchiesta sugli appalti della Tav di Firenze
A ottobre 2013 per un’inchiesta sul settimanale L'Espresso di Lirio Abbate riguardante quella giudiziaria sugli appalti della Tav di Firenze;[51] Lirio Abbate associava i nomi di alcuni indagati (molti dei quali assolti dal Giudice dell'Udienza Preliminare e poi dalla Cassazione[52], D'Alema intentava una causa di risarcimento danni per diffamazione. All’inizio di ottobre 2018, il Tribunale non riteneva diffamatorio l'articolo di Lirio Abbate in quanto riportava termini usati dagli inquirenti nell'istruttoria, che annoveravano la presidente di Italferr tra le conoscenze di Massimo D'Alema. Veniva quindi condannato al pagamento delle spese processuali».[53]
Vendita di sistemi militari alla Colombia
A marzo 2022 è stato coinvolto, con ampia eco sulla stampa[54][55], in una vicenda internazionale di vendita di sistemi militari alla Colombia da parte di alcune aziende italiane come Leonardo e Fincantieri. Nell'ambito di tale negoziazione D'Alema avrebbe ricoperto un ruolo di mediatore. Al riguardo la procura di Napoli ha aperto un'inchiesta, dove l'ex presidente del Consiglio non risultava indagato fino al 6 giugno 2023, quando assieme ad Alessandro Profumo viene indagato per corruzione internazionale aggravata.[56][57][58]
Controversie
Questa sezione contiene controversie da riorganizzare.
D'Alema è uno dei pochi politici di centro-sinistra ad aver raccolto attestazioni di stima ed appoggio anche da parte di molti che, nel Paese, si riconoscono negli ideali politici del centro-destra, incluso Silvio Berlusconi, principale leader di centro-destra suo contemporaneo; tuttavia non mancano pareri molto critici che ritengono che questa stima sia stata conquistata grazie alla tendenza all'appeasement con la controparte, e come questo abbia comportato risultati alquanto scadenti sul piano politico[59][60][61][62].
Tangentopoli
Nei primi mesi del 1993, quando l'inchiesta di Mani Pulite iniziava ad occuparsi delle cosiddette "tangenti rosse" al PCI/PDS, D'Alema definiva spregiativamente il pool «il soviet di Milano».[63]
Il 5 marzo 1993, il governo di Giuliano Amato approvò il decreto Conso, con cui il parlamento cercava una "soluzione politica" a Tangentopoli. Il decreto fu contestato da gran parte della popolazione, non fu firmato dal presidente Scalfaro e fu criticato dal PDS. Questo episodio fu causa di attrito fra D'Alema e Amato: il presidente del consiglio accusò il PDS di aver tenuto un comportamento ambiguo.[64]
Il «patto della crostata» è un'espressione coniata nel settembre 1997 da Francesco Cossiga[66] per indicare l'accordo informale sulle riforme costituzionali siglato fra D'Alema, Franco Marini, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini durante una cena svoltasi nella notte fra il 17 e il 18 giugno nella casa di Gianni Letta di via della Camilluccia a Roma[67]. La crostata in questione è il dolce che tradizionalmente veniva preparato per gli ospiti dalla moglie di Letta, Maddalena[68].
In quell'occasione, D'Alema si sarebbe impegnato a non fare andare in porto una legge sulla regolamentazione delle frequenze televisive[senza fonte]: a tale fine si sarebbe prestato l'allora presidente della ottava Commissione permanente del Senato, Claudio Petruccioli, non calendarizzando l'esame degli articoli del disegno di legge n. 1138 per tutta la XIII legislatura[senza fonte]. Tale legge avrebbe costretto il gruppo Mediaset a vendere una delle proprie reti (in tal caso avrebbe scelto probabilmente la meno importante, Rete 4). Inoltre, in quel periodo, Mediaset era in procinto di quotarsi in borsa, e una legge di quel calibro avrebbe ridotto il valore dell'azienda. L'eventuale prezzo che l'altro contraente (Silvio Berlusconi) avrebbe promesso come merce di scambio, non è noto. D'Alema bollò come "inciuci" (cioè pettegolezzi privi di fondamento) tali affermazioni. A causa probabilmente della scarsa conoscenza dei dialetti meridionali da parte dell'intervistatore, al termine fu attribuito un significato distorto (ovvero, accordo sottobanco), che è poi quello per il quale oggi viene più frequentemente utilizzato[69].
Appartamento romano
Nel 1995 D'Alema rimase coinvolto nella cosiddetta Affittopoli, una campagna mediatica promossa da Il Giornale secondo la quale enti pubblici davano in locazione a VIP appartamenti ad equo canone. Dopo una dura campagna mediatica D'Alema decise di lasciare l'appartamento per comprare casa a Roma, ma solo dopo essersi presentato alla trasmissione di Rai 3 condotta da Michele Santoro, dal titolo Samarcanda, in cui giustificò l'accaduto affermando che aveva avuto bisogno di una casa appartenente a enti pubblici perché versava metà del suo stipendio da parlamentare al partito (all'epoca consistente in circa 12 milioni di Lire al mese).[9]
L'immobile in questione era un appartamento di 146 m² in zona Porta Portese, per il quale pagava un equo canone pari a 1.060.000 lire[70](che rivalutati secondo l'inflazione ISTAT al 2010 corrispondono a circa 780 euro).
Il 4 maggio 2010, nel corso di una puntata del 2010 del talk show Ballarò dedicata alle vicende che avevano portato alle dimissioni da ministro di Claudio Scajola, Alessandro Sallusti (condirettore de Il Giornale) tornò su questo caso definendo D'Alema «il protagonista del più grande scandalo della "casta" italiana, che era "affittopoli"», suscitando la reazione di D'Alema che, inizialmente, replicò con vigore: «L'accostamento è del tutto improprio», e in seguito ai successivi e insistenti accostamenti tra le due vicende fatti da Sallusti («Lei era un privilegiato: "affittopoli" eravate[non chiaro] una ventina di politici, quasi tutti di sinistra... Da un punto di vista etico-morale lei ha approfittato della sua posizione»), ribatté: «Vada a farsi fottere: lei è un bugiardo e un mascalzone» e successivamente «Io capisco che la pagano per venire qui a fare il difensore d'ufficio del governo [...] capisco che deve guadagnarsi il pane, ma questo modo è vergognoso, ma io non la faccio più parlare». Secondo Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, quelle di D'Alema sono state espressioni insultanti che nessun'affermazione o provocazione potevano giustificare.[71] Per le frasi rivolte a Sallusti il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio aprì un procedimento disciplinare a carico di Massimo D'Alema, in quanto giornalista iscritto all'Albo.[72]
Vendita e reimmatricolazione della barca di proprietà sotto bandiera britannica
Nel Giugno del 2018 D'Alema viene riconosciuto e fotografato in crociera nell'arcipelago di La Maddalena con la sua storica barca a vela Ikarus che però ora, sotto il nuovo nome di "Giulia G" (il nome della figlia di D'Alema), batte bandiera britannica e risulta immatricolata a Londra. Diverse inchieste giornalistiche suggeriscono che l'operazione di reimmatricolazione sotto bandiera straniera sia stata fatta per convenienza fiscale. La scelta, da parte di un personaggio che ha ricoperto i massimi incarichi istituzionali e politici della Repubblica, è fonte di scandalo.[73]
La passione velica
Appassionato di vela, D'Alema è stato proprietario di una prima barca a vela, il Margherita. Successivamente, nel 1997, ha acquistato, con il leccese Roberto De Santis ed il romano Vincenzo Morichini, la Ikarus, una Baltic di seconda mano[74][75].
In seguito - con i proventi della vendita della stessa integrati dalla vendita di una casa nel frattempo ereditata dal padre e da un leasing - ha acquistato, in comproprietà, una nuova barca a vela, la Ikarus II, lunga 18 metri, che è stata pagata la metà del prezzo preventivato: i cantieri "Stella Polare" di Fiumicino gliel'avrebbero regalata come promozione pubblicitaria ma lui ha voluto comunque almeno pagarne la metà[76].
Opere principali
La crisi del paese e il ruolo della gioventù. Comitato Centrale della FGCI 26-27 gennaio 1976. Relazione del Compagno Massimo D'Alema, s.l., 1976.
La formazione politica in un moderno partito riformatore, a cura di e con Franco Ottaviano, Roma, Istituto Togliatti, 1988.
Il partito nelle aree metropolitane, a cura di e con Sandro Morelli, Roma, Istituto Togliatti, 1988.
^"La famiglia D'Alema è originaria di Miglionico, in provincia di Matera, ma mio marito era nato a Ravenna perché lì era stato trasferito suo padre che era un ispettore scolastico" (Fabiola Modesti). Giovanni Fasanella, Daniele Martini, D'Alema: la prima biografia del segretario del PDS, Longanesi, 1995, p.10.
^ Vera Paggi, Ribellarsi è giusto: La notte della Bussola, su di Storia /in Storia, 26 dicembre 2021. URL consultato il 7 giugno 2023 (archiviato dall'url originale il 23 aprile 2023).
^MicroMega - la primavera, n. 4, 23 marzo 2006, p. 55
^abMarco Travaglio, Ad personam. 1994–2010: così destra e sinistra hanno privatizzato la democrazia, Milano, Chiarelettere, 2010 [2010], p. 81, ISBN978-88-6190-104-9.
^Secondo quanto riportato da Panorama in un interrogatorio davanti al P.M. Alberto Maritati avvenuto il 19 settembre 1994 Cavallari avrebbe dichiarato: "Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al partito. D'Alema è venuto a cena a casa mia, e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale 1985, che volevo dare un contributo al Pci." Dichiarazione poi riconfermata il successivo 7 ottobre ( Maurizio Tortorella, D'Alema e quel peccatuccio da 20 milioni sepolto a Bari, in Panorama, 1º giugno 2000. URL consultato il 15 dicembre 2009 (archiviato dall'url originale il 3 luglio 2010).
^Secondo Amato il Pds sostenne in privato e criticò in pubblico il decreto. Massimo D'Alema, all'epoca segretario, inveì: «Amato è un bugiardo e un poveraccio. È uno che deve fare di tutto per restare lì dov'è, sulla poltrona» (da Barbacetto, Gomez, Travaglio, op. cit.)